"Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a
suonare. E' come partire da zero. [...]
Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare
di accrescerla, lasciarla essere"
(K. Jarrett).
(K. Jarrett).
L’arte
dell’improvvisazione ha origini antiche, remote; molto probabilmente è la forma
primordiale di musica, la più slegata da strutture archetipe che, accumulatesi
nel corso dell’evoluzione della civiltà, hanno progressivamente irreggimentato
quest’arte secolare.
"Solo
nell'improvvisazione l'ascoltatore ha la possibilità di avere un reale contatto
con il musicista, senza la normale distanza che esiste in altri tipi di
esecuzione. Ogni nota non è scritta su uno spartito è non è stata neanche
prevista prima. Ogni nota è nel presente ed è viva". (Keith Jarrett)
Chiariamo
infatti e da subito un punto essenziale: per valutare Jarrett e la sua musica
il critico, il musicologo, sia esso di estrazione accademica o jazzistica, ma
anche il semplice ascoltatore appassionato, deve sforzarsi di operare cercando
di abbandonare qualsiasi genere di pregiudizio o schema precostituito e
storicamente consolidato in fatto di musica, da qualsiasi direzione culturale
egli provenga, mettendosi in prima persona in discussione e al servizio della
musica. In altre parole, occorre per un attimo saper dimenticare non solo le
proprie preferenze musicali, ma anche rinunciare a voler inquadrare
forzatamente la sua opera in un preciso ambito stilistico: il jazz, piuttosto
che la musica accademica, la new age piuttosto che la world music, per fare
solo degli esempi. Tutto questo pur potendo tranquillamente rintracciare tali
elementi esplicati al meglio nella sua musica. Altrimenti si va incontro ad un
maldestro approccio che porta e ha già portato inevitabilmente ad utilizzare
criteri di valutazione impropri e a delle distorsioni critiche. Non a caso
musicologi ed esperti di chiara fama, come Piero Rattalino e Marcello
Piras, pur provenendo da campi musicologici agli antipodi tra loro
(l’uno accademico, l’altro prettamente jazzistico), sono incorsi entrambi in
giudizi critici sul Nostro che letti oggi risultano essere chiare bucce di
banana su cui sono involontariamente scivolati. Ma non sono i soli, visto che
altri, specie nell’ambiente jazzistico, hanno dovuto cambiare giudizio critico
in corsa, in particolare dopo l’avvento dello Standards Trio, da considerarsi comunque l’esperienza più
matura e, forse, il contributo più rilevante del pianista in ambito
strettamente jazzistico.
Sarebbe
tuttavia erroneo valutare l’opera di Jarrett, specie quella pianistica, sotto
la ristretta ottica della musica afro-americana. Il fatto è che raramente un
musicista ha saputo essere interprete del suo tempo come Jarrett. Un’epoca in
cui lo scambio culturale interplanetario, sospinto anche dall’enorme sviluppo
dei mezzi di trasporto e telecomunicazione ha permesso un sempre più rapido
contatto tra genti e culture assai diverse tra loro, favorendo un processo di
“contaminazione” e di “globalizzazione” anche in campo artistico e musicale; un
processo che potremmo schematicamente definire come “cosmopolitismo musicale” e
rintracciare, a mo’ di splendido esempio, nella sintesi artistica del Nostro.
La sera del
24 gennaio del 1975, qualcosa di magico accadde all’Opera Haus di Colonia.
Keith Jarrett, pianista sulla breccia da una decina d’anni scarsi, cresciuto alla corte dei Jazz Messengers di Blakey, di Charles Lloyd e di Miles Davis, da qualche anno aveva avviato una fortunata collaborazione con il produttore discografico tedesco Manfred Eicher. Nel 1973 egli aveva inaugurato una serie di concerti (Brema e Losanna) durante i quali egli affrontava il pianoforte completamente alla cieca, senza l’ausilio di alcun supporto, in una sorta di improvvisazione totale che faceva leva non solo sulla sua esperienza nel jazz ma anche sulla sua solidissima preparazione classica (cominciò a suonare all’età di tre anni, a sette componeva già e fu allievo della Berklee School of Music).
Opera Haus Colonia |
Keith Jarrett, pianista sulla breccia da una decina d’anni scarsi, cresciuto alla corte dei Jazz Messengers di Blakey, di Charles Lloyd e di Miles Davis, da qualche anno aveva avviato una fortunata collaborazione con il produttore discografico tedesco Manfred Eicher. Nel 1973 egli aveva inaugurato una serie di concerti (Brema e Losanna) durante i quali egli affrontava il pianoforte completamente alla cieca, senza l’ausilio di alcun supporto, in una sorta di improvvisazione totale che faceva leva non solo sulla sua esperienza nel jazz ma anche sulla sua solidissima preparazione classica (cominciò a suonare all’età di tre anni, a sette componeva già e fu allievo della Berklee School of Music).
Quella sera, Jarrett aveva chiesto che sul palco fosse portato uno Steinway,
il suo pianoforte preferito, quello sul quale aveva per anni coltivato l’arte
dell’improvvisazione. Qualcosa non andò nel verso giusto e lo Steinway non
arrivò mai; sebbene molti dell’organizzazione cominciassero a tremare (Jarrett
diventerà tristemente famoso anche per le sue sortite da primadonna), il
pianista aveva chiesto che in sostituzione fosse portato uno dei due
Bösendorfer che erano dietro le quinte, dopo averli provati. Ma quella sera era
nata per essere speciale e, colmo di sfortuna, per un disguido, sul palco fu
invece portato l’altro Bösendorfer. Tutti, Eicher compreso, erano a un passo
dal gettare la spugna; ma non Jarrett che intravide in quella avversità uno
stimolo in più per poter fare qualcosa di eccezionale.
Con molto ritardo, il concerto ebbe inizio.
"La
cosa più importante in un mio concerto è la prima nota o le prime quattro note.
Se hanno sufficiente tensione, il resto del concerto viene da sè, quasi
naturalmente [...] bisogna solo raggiungere il nucleo della musica e poi
questa suona da sola".
Ascoltate le prime cinque note del concerto. Più che tese sono sospese, come in levitazione. Poi il resto va da sé.
Ascoltate le prime cinque note del concerto. Più che tese sono sospese, come in levitazione. Poi il resto va da sé.
Le prime note del Koln Concert |
"Se
si è un improvvisatore, un vero improvvisatore, si deve avere familiarità con
l'estasi (io direi "l'ispirazione", n.d.r.), altrimenti non si
entra in contatto con la musica. Quando si compone si aspetta che questi attimi
particolari giungano (appunto, l'ispirazione n.d.r.), in qualsiasi
momento questo accada. Può anche darsi che oggi non arrivino. Ma quando
s'improvvisa, alle otto di stasera per esempio, è necessario avere una tale
familiarità con questo stato da poterlo raggiungere comunque". (Keith Jarrett)
Il Köln
Concert, registrato all’inizio del 1975, rappresenterà in breve e un po’
inaspettatamente per Jarrett, il vertice del suo successo discografico, il
raggiungimento di una fama e una popolarità che riuscirà ad andare oltre il
normale target di appassionati cui fino a quel momento si era rivolto e
inevitabilmente darà una conseguente svolta alla sua carriera artistica e
professionale. Eppure, guardando quel concerto a distanza di tempo, alla luce
degli eventi successivi e con il necessario distacco, si deve paradossalmente
considerare un caso a se stante nel panorama discografico jarrettiano e, tutto
sommato, una delle sue prove musicalmente meno consistenti realizzate in tutta
la sua carriera. Si tratta, come è noto dalle sue biografie, di un concerto
sostanzialmente anomalo per svariate ragioni personali e negative circostanze
organizzative, che tuttavia non impedirono a Jarrett di tirar fuori comunque il
meglio compatibilmente con le circostanze. Un’esperienza questa che confermerà
al suo autore come spesso la creazione artistica nasca più da situazioni di
difficoltà, disarmonia e sofferenza piuttosto che dal benessere psico-fisico e
che avrà modo di ripetere non infrequentemente negli anni a venire.
The Koln Concert |
Le ragioni del successo senza precedenti di questo
disco-concerto sono svariate e sono già state ben analizzate da altri, ma mi
sembra siano legate, principalmente, da un lato ad una forma di ritualità nel
gesto del suonare, dall’altro all’emozionalità della sua musica, magari
esplicata in modo a tratti un po’ epidermico, ma che risulta alla fine essere
assai diretta ed estremamente coinvolgente per l’ascoltatore-spettatore, che
coglie così la sensazione di assistere e compartecipare ad un evento, piuttosto
che ad una semplice ed usuale esibizione musicale.
Quel che è
certo è che Jarrett con questo concerto ha avvicinato intere schiere di nuovi
adepti non solo nel mondo della sua musica, ma anche indirettamente a quello
del jazz e della musica improvvisata americana tout court. Un merito certo non
trascurabile, che, in questo, lo accomuna ad un grande maestro-predecessore che
aveva recentemente contribuito al suo lancio, il mitico Miles Davis, ma anche
ad altre figure musicalmente trasversali e storiche del jazz, come un Louis Armstrong o un Benny Goodman, tanto per citare.
In realtà, certa emozionalità un po’ epidermica, nonostante l’indiscutibile
successo del disco, sarà presto abbandonata da Jarrett che dimostrerà, come
sempre nella sua carriera, estremo rigore musicale e scarsissima propensione
alla concessione commerciale ed all’ammiccamento, cosa che non si potrà certo
dire di tanti altri affermati pianisti coevi, come Chick Corea e Herbie
Hancock, in fondo jazzisticamente assai meno discussi e curiosamente più
accettati dall’establishment jazzistico, nonostante le numerose scivolate nel
kitsch più inverecondo.
Le prime
note sono di attesa, come se Jarrett e il Bösedorfer fossero due belve che si
stessero studiando, occhi negli occhi. Il suono del pianoforte era qualcosa che
andava aldilà delle più nere previsioni; sembrava uscire da uno strumento da barrell
house (pare che non fosse stato nemmeno revisionato!) e non da un gran coda
da concerto. Gli acuti erano al limite dello stridore e i bassi al limite della
sordità; davvero, chiunque avrebbe chiuso il coperchio e salutato il pubblico!
I primi
minuti sono la reale descrizione di una suspance vissuta in diretta, ma
poi Jarrett si getta a capofitto in quest’avventura che, nel bene e nel male,
segnerà il panismo jazz e new age dei successivi 20 anni. Un’avventura dalla
durata complessiva di circa un’ora; il concerto si compone di 4 parti o,
meglio, di due parti e quattro sezioni (part I, part IIa, part IIb, part IId).
Memories of tomorrow |
I mugolii di
gouldiana memoria, gli accordi multirivoltati e complessi (abbondano le settime
sensibili e le none), la mano sinistra intrappolata da pause lunghissime, gli
stomp del piede destro sul pedale e quelle lunghissime scale, che alternano i
modi maggiore e minore in un flusso velocissimo, ibrido e irrisolto per almeno
15 minuti, contraddistinguono la prima parte (lunga circa 26 minuti), che, dopo
una modulazione estremamente complessa, si conclude con una cavalcata gospel
(riferimento fondamentale del jazz di Jarrett).
La seconda
parte, sezione IIa, ci fa capire subito in quale ambito timbricamente
vincolato nacque e si sviluppò l’armonia della performance; Jarrett con la mano
sinistra sui bassi non poté far altro che cercare i ritmi più ossessivi (e li
trovò!) tra ribattuti velocissimi e salti d’ottava sugli accenti secondari. Un
ritmo spasmodico e ossessivo sul quale si avvicendano pezzi sparsi di melodie
rag che appena nascono si aggrovigliano attorno alle blue note (il fa bequadro
e il do naturale, ma anche il si bemolle) formando un impasse melodico che
raramente si riscontra nella discografia jazz (la memoria non può che andare al
più grande pianista jazz di sempre, Art Tatum). Il tutto confinato tra il re
basso e il do acuto, intervallo che racchiudeva le uniche possibilità
espressive di quel Bösendorfer.
La seconda
sezione, la IIb, è probabilmente il lascito maggiore a tutta una schiera
di pianisti new age che di lì a poco avrebbe invaso il mercato discografico;
dopo un inizio tranquillo che presto si rivela ipnotico, di tanto in tanto
rotto da piccole volatine verso l’alto come i guizzi improvvisi che turbano le
acque stagnanti di qualche palude del sud, il brano si abbandona a una serie
lunghissima e sfinente di trilli e tremoli che, attraverso una modulazione
intricatissima tanto da far perdere davvero l’orientamento armonico e di tempo
(6+3/16, 12+2/16, 5/8, 6+2/8, 7/8, 9/8 i metri ritmici che si susseguono), ci
porta dall’iniziale tonalità di La maggiore a quella di Lab maggiore. Su questa
tonalità Jarrett chiude il brano con una lunghissima coda che riprende le
atmosfere di inizio concerto.
Una piccola
pausa e Jarrett, dopo 50 minuti in cui ha praticamente esaurito tutte le
possibilità espressive di quello strumento, riconduce l’auditorio nel regno
sovrano del jazz. Si tratta di un ritorno “alla casa dei padri” (Powell
su tutti, si ricordi la sua Body and Soul), un brano in cui i patterns
armonici e cromatici degli standards fungono da sostegno a una mano destra che
continua ad avventurarsi in scale e arpeggi mozzafiato, ma estremamente
melodici. Il tutto si placa nella morbida coda di Do maggiore, placida come il
finale della Fantasia di
Schumann.
Eicher e
Jarrett, dopo aver riascoltato il nastro decisero che, nonostante tutte le
avversità, il materiale registrato era “musicalmente coerente” e, grazie
all’ingegner Wieland, essa fu migliorata per essere incisa. Il concerto fu
dapprima edito su doppio vinile e distribuito nello stesso anno; la rivista
Times, sempre nel 1975, premiò The Köln Concert con il Record of the
Year Award. Nel 1978 esso aveva già venduto quasi 1.500.000 copie, cifra
che raramente si sfiora nel jazz. Nel 1990 l’ECM immise sul mercato la
rimasterizzazione di The Köln Concert su un unico cd, scelta rivelatasi
azzeccatissima, tanto da portare a quasi 5.000.000 il numero delle copie
vendute!.
Nel 1974,
una rivista americana si esprimeva in questi termini: “[Jarrett] è un
maestro d’improvvisazione e possiede una tecnica che pianisti del calibro di
Horowitz o Rubinstein potrebbero ammirare; la sua tecnica è la più notevole da
Art Tatum in poi”. Jarrett non molto più in là negli anni approfondirà
questo suo retaggio “europeo” essenzialmente armonico-melodico (dapprima con
sodalizi artistici e poi con le incisioni di Bach, Händel, Mozart e
Shostakovich), rendendo evidente anche ai suoi detrattori quale sia stato il
vero impatto sul panismo jazz di questo americano della Pennsylvania. The
Köln Concert è la chiave del suo pianismo improvvisativo e di come in esso
l’esperienza “classica” sia messa al servizio del gospel, del rag e del jazz
tutto.
La musica
che si propone di eseguire Jarrett è dunque tutta espressa nell’attimo stesso
in cui viene eseguita: forme, strutture, ritmi, melodie, colori, timbri e moods
espressivi, tutto viene inventato al momento, nell’incontro spazio-temporale
espresso dall’esibizione concertistica, basandosi semplicemente
sull’ispirazione, sul proprio retroterra culturale, sulla propria
consapevolezza di musicista e nella massima fiducia delle proprie risorse
tecnico-espressive, tramutando l’esecuzione musicale in una vera e propria
esperienza vitale, totalmente coinvolgente per se stesso e per chi ascolta. Si
tratta, più che altro, di un’innovazione nell’approccio alla musica, di
carattere pressoché mistico e che non può essere compresa senza un altrettanto
orecchio mistico. Argomentazione questa che ha sempre stentato ad essere
accettata dalla critica più ortodossa e tradizionale, diffidente a considerare
certe componenti extra-musicali e che tende invece ad attribuire alla
gestualità apparentemente scomposta ed eccessiva del pianista un atteggiamento
puerilmente esibizionistico ed una manifestazione dell’ego. Si tratta invece
del suo esatto contrario, poiché Jarrett mette invece al centro la (sua) musica
e non se stesso, mentre il giudizio critico sulla musica è spesso distorto e
“distratto” visivamente dalle movenze del suo esecutore.
Country SOLO |
Sta di fatto
che le profonde implicazioni filosofiche e spirituali che Jarrett sembra
suggerire col suo innovativo approccio non sembrano essere ancora state
seriamente prese in considerazione, soprattutto da chi poco frequenta certe
discipline mistiche, cui Jarrett fa direttamente o indirettamente riferimento e
che peraltro sono state più volte citate nelle biografie e su svariate note
discografiche che accompagnano i suoi CD.
Jarrett
costringe ad un necessario mutamento di approccio nell’ascolto, scevro dal
canone usuale di valutazione (tipicamente utilizzato da chi proviene, in
particolare dalla musica accademica), che fa dell’equilibrio formale, del
rigore strutturale e della logica nello sviluppo melodico-armonico elementi
irrinunciabili di valutazione estetica, enfatizzando, senza ovviamente
dimenticare i precedenti, la creazione istantanea e il valore della spontaneità
nell’esperienza del suonare, ossia valori forse non propriamente intellettuali,
ma certamente più idonei a valutare la musica improvvisata. Non a caso Jarrett
afferma nel suo “Desiderio feroce”: “Io non mi sento esattamente un musicista.
Quando mi ascolto suonare, ci sono momenti in cui realizzo che non si tratta
solo di musica”. Per Jarrett non esiste infatti un confine tra musica e vita:
per lui il musicista è qualcuno che è trasformato da quello che sente e da
quello che suona.
D’altro canto, curiosamente egli non potrebbe essere
nemmeno giudicato con i criteri propri della musica afro-americana, nonostante
sia e sia sempre stato un musicista di chiara estrazione jazzistica. Da questi
concerti, infatti, Jarrett comincia a far intravedere sempre più chiaramente
che il jazz è solo una (forse la principale, ma non certamente l’unica) delle
fonti d’ispirazione cui attingere, in un coacervo fatto di molteplici elementi:
dalla canzone popolare alla new age, dagli inni sacri e profani sino alla
musica classica europea e americana (a lui ben note sin dall’infanzia) e molto
altro ancora, portandolo a rientrare, come sostiene acutamente Gianni Morelembaum Gualberto,
più nell’ambito della cosiddetta “Americana” che in quello del Jazz.
Pur tenendo
presente tutti questi innovativi elementi nell’ascolto del cofanetto, si deve
tuttavia ammettere che i due concerti, specie il primo, quello di Losanna del
Marzo 1973, non possono ancora dirsi opere mature o dei capolavori, che
comunque non tarderanno ad arrivare di lì a pochi anni. Entrambi i concerti
contengono validi spunti musicali, con note di eccellenza per il concerto di
Brema, che sembra essere complessivamente il più organico, ispirato e
riuscito dei due. Eccellente anche il breve bis al concerto (Encore), un brano
di difficilissima esecuzione tecnica, contenente una sua superlativa
improvvisazione, che Jarrett riproporrà brillantemente in diverse altre
circostanze concertistiche.
A conferma
di quanto affermato, il 1976 si rivelerà un anno decisivo e di svolta per le
esibizioni in piano solo di Jarrett, con la produzione di alcune delle sue
opere più mature, come Staircase, e soprattutto con l’arditissima pubblicazione
contemporanea di cinque consecutivi concerti dell’autunnale tournée giapponese,
che personalmente considero la sua opera più rappresentativa di piano solo
improvvisato: Sun bear concerts.
Staircase è
un’opera di transizione nell’estetica jarrettiana e, soprattutto, risulterà a
tutt’oggi l’ultimo lavoro di piano solo registrato in studio da Jarrett.
Si tratta, di un’opera formalmente compiuta, già molto diversa e in definitiva
assai più profonda rispetto al concerto di Colonia. Anche se registrata al
Davout Studio di Parigi nel Maggio di quell’anno, sempre d’opera totalmente
improvvisata trattasi, ma questa volta pensata e strutturata organicamente in
quattro parti distinte: Staircase, appunto, Hourglass, Sundial e Sand
(scalinata, clessidra, meridiana, e sabbia intesa come trascorrere del tempo
sono le traduzioni delle parole. ndr), ognuna delle quali sembra possedere
motivazioni ispiratrici diverse e, in definitiva anche emozioni diverse.
Decisamente una bella e calibrata prova del Nostro che, pur affrancandosi
notevolmente dalle concezioni jazzistiche più ortodosse, sembra fatta apposta
per contraddire le già numerose critiche provenienti dalla critica jazz più
rigida ed intransigente dopo la pubblicazione del concerto di Colonia. Più di
un critico attento riesce infatti a mettere obiettivamente in rilievo la
valenza di questa opera, che rivela appieno, specie in il Hourglass, il talento
pianistico e melodico di Jarrett e la molteplicità delle sue fonti ispiratrici.
Sapporo |
Ma è con i Sun bear concerts che Jarrett tocca forse
la vetta più alta ed innovativa della sua idea di pianoforte solo improvvisato,
basata sul concetto, portato alle estreme conseguenze, di libera
improvvisazione, così ben sviluppata nell’evoluzione della musica
afro-americana e alla quale anche Jarrett fa indubbiamente riferimento. Un’improvvisazione che potremmo
definire “totale” e che, se da un lato non parte solo e semplicemente prendendo
spunto da un tema base, o da una struttura armonica, come normalmente viene
intesa, dall’altro non richiede nemmeno la distruzione e la frammentazione dei
suoi elementi costituenti per raggiungere quel grado di libertà così fortemente
ricercato da grandi personaggi di riferimento jazzistico nel periodo, come
Cecil Taylor, in qualche modo da considerarsi, nell’estetica, un suo stimato
alter-ego. La libertà che cerca Jarrett, pur avendo alcuni punti in comune è,
infatti, una libertà diversa, priva di iconoclastie, che rifugge di principio
qualsiasi genere o momento di cacofonia e che si ripropone di elevare al
massimo grado il potenziale espressivo e creativo dell’artista nell’atto del
suonare.
Due opere assai diverse tra loro ma entrambe molto significative, come Dark
Intervals e Solo Tribute (edizione questa in realtà distribuita
ancora in video), registrate alla Suntory Hall di Tokyo rispettivamente l’11 e
il 14 Aprile 1987.
In questo
senso Dark Intervals costituisce uno dei suoi concerti più
significativi, anche se all’apparenza un po’ lugubre e che farà da riferimento
per tutte le successive pubblicazioni concertistiche. Un’esibizione in cui
Jarrett sembra voler sviluppare in musica il concetto di silenzio, in varie
forme e modalità, riferendosi in particolare ad una sua precisa forma: la pausa
musicale. Una pausa (con la quale si sottintende il dark interval del titolo)
spesso breve, infinitesimale, in cui il pensiero e le mani “meditano” allo
scopo di decidere la direzione da dare ai suoni successivi.
Impressiona,
anche se forse esteticamente può lasciare perplessi, un brano come Opening in
cui, d’altro canto, Jarrett sembra esplicare in musica quel concetto di ricerca
“feroce” dell’energia creativa che è in fondo la radice prima di ogni sua buona
improvvisazione.
Hymn |
Con il Paris
concert, del 1988, Jarrett compie un ulteriore passo avanti verso
l’approfondimento mistico in musica
introducendo qualcosa di fortemente “bachiano” nelle sue performance. “Quando
voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio. La sua opera è generatrice di divinità.
Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, è necessario che Egli esista.
Altrimenti tutta l’opera del Kantor sarebbe una straziante illusione. E pensare
che tanti teologi hanno perso giornate e notti a cercare le prove
dell’esistenza di Dio, dimenticando l’unica”. Questa citazione di Cioran,
meglio di ogni altra esprime a parole la perfezione universale, pressoché
cosmica, della musica di J.S. Bach, autore che più di ogni altro sembra
avvicinarsi con la sua arte a Dio.
Prism |
Paris concert non si distingue tuttavia solo per il lungo brano citato, in fondo da considerare una prosecuzione del discorso iniziato con Dark Intervals. Esso riporta, infatti, due bellissimi brani di estrazione più propriamente jazzistica, mai abbandonata o rinnegata da Jarrett in carriera, rispolverando un brano come The Wind, del misconosciuto pianista West Coast anni ’50 Russ Freeman e una sua notevole improvvisazione su blues.
Blues |
The wind |
Un’alternanza di proposte che ripeterà sempre più spesso nei concerti successivi e che dimostra ancora una volta la sua grande cultura jazzistica.
Il Vienna
concert, pubblicato nel 1993 ma registrato nel 1991, prosegue sulla strada
già tracciata ed è sicuramente un altro riuscito episodio che documenta forse
una delle sue migliori performance in piano solo improvvisato d’ispirazione
classica. Gli elementi afro-americani qui sono infatti volutamente ridotti
all’osso, ma la sua consapevolezza di musicista ormai maturo e personale sembra
ormai emergere in modo quasi carismatico, producendo comunque sintesi musicali
interessanti e confermando enormi capacità di generare momenti musicali di rara
bellezza. “Ormai, quando un pianista si scopre disposto a uscire dalle griglie
del jazz o della tradizione colta per entrare in un terreno che sia di tante o
di tutte le culture, si dice che suona alla Jarrett. Il modello è lui, non
perché oggetto consapevole di imitazione, ma perché il suo modo di suonare ha
già esplorato infinite sintesi possibili. Ormai, suonare il pianoforte
cosiddetto di confine rende tutti, ineluttabilmente, epigoni di Jarrett”
Considero,
infine, il concerto del 13 febbraio 1995 al Teatro alla Scala il suo
concerto in piano solo più riuscito dai tempi del Sun Bear Concerts. Si tratta,
a mio avviso, di un nuovo apogeo della sua arte, dopo il quale, con l’eccezione
del particolare The melody at night with you, un disco bellissimo, registrato
in casa nel periodo della lunga malattia, ma crepuscolare e di tutt’altra
poetica, Jarrett non ha più inciso in questo tipo di situazione.
E’ questo un
concerto in cui si trova di tutto, dalle influenze orientali, alla musica
accademica, dallo standard, all’atonalità jazzistica, in un’esibizione che
lascio alla bella e adatta descrizione contenuta nella cronaca dell’epoca di Franco Fayenz: “E’ il momento
dunque. Il pianista ha un attimo di esitazione davanti alla tastiera, poi ecco
un ricciolo di note che subito ne richiama un altro e prende quota su un tempo
medio-lento. Chi se ne intende capisce che il seme è buono. Il flusso è
postromantico, di grande poesia. La gestualità di Jarrett è la solita: si alza
in piedi, ondeggia davanti allo strumento, si china sino a sfiorare la tastiera
con la fronte alla maniera di Bill Evans.
Ogni tanto mugola o canticchia, abbandona il pedale, picchia il pavimento col
piede destro. Il clima quasi chopiniano cede insensibilmente il luogo a un
motivo orientale. Poi i suoni tendono a dare segni d’incertezza e perfino a
spegnersi. E’ il momento in cui l’improvvisazione brancola alla ricerca di un
nuovo nucleo. Jarrett lo trova, inventa un ritmo fosco e ostinato, accenna a
melodie poi negate, attinge a depositi della memoria e frantuma assieme Bill
Evans e ragas indiano, Stephen Foster e Chopin, Liszt e Bud Powell. Il pubblico
segue rapito, attonito. E quando dopo tre quarti d’ora, Jarrett rientra fra le
quinte, scatta in un applauso impressionante e lo richiama per cinque volte.
Prendo nota che la Scala ha ottenuto l’intervallo che il nostro, di regola,
nega. Adesso per lui è come se cominciasse un secondo concerto. Capisco che il
seme è di nuovo fecondo, ma porta da tutt’altra parte, verso la contemporaneità
e verso un linguaggio più conciso e sicuro, fitto di riferimenti alle sue
esperienze classiche. Un interludio romantico conduce a un epilogo informale
stranamente dolce, esposto a mani incrociate, che termina con un “alt” brusco e
inatteso, stupendo.
Somewhere over the rainbow |
I love you Porgy |
E’ trascorsa un’altra mezz’ora, la sala esplode. Le
chiamate non si contano, i bis sono quattro: un blues, il vecchio Danny boy reinventato,
un flamenco, il delizioso Over the raimbow. Jarrett trasforma lo standard
nell’adagio di una sonata, ed è il trionfo”.
Ma l’ultima
parola spetta a lui, a Keith Jarrett che con un’immagine quasi eterea cerca di
condurci nel suo mondo musicale e improvvisativo:
“Le note mi arrivano come un vapore sottile, come
vapore acqueo. E io cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell'aria.” (Keith Jarrett)
Keith Jarrett |
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