giovedì 2 giugno 2016

The Koln Concert e il solismo di Keith Jarrett




"Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a suonare. E' come partire da zero. [...]
Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare di accrescerla, lasciarla essere" 
(K. Jarrett).
L’arte dell’improvvisazione ha origini antiche, remote; molto probabilmente è la forma primordiale di musica, la più slegata da strutture archetipe che, accumulatesi nel corso dell’evoluzione della civiltà, hanno progressivamente irreggimentato quest’arte secolare.
"Solo nell'improvvisazione l'ascoltatore ha la possibilità di avere un reale contatto con il musicista, senza la normale distanza che esiste in altri tipi di esecuzione. Ogni nota non è scritta su uno spartito è non è stata neanche prevista prima. Ogni nota è nel presente ed è viva". (Keith Jarrett)

Chiariamo infatti e da subito un punto essenziale: per valutare Jarrett e la sua musica il critico, il musicologo, sia esso di estrazione accademica o jazzistica, ma anche il semplice ascoltatore appassionato, deve sforzarsi di operare cercando di abbandonare qualsiasi genere di pregiudizio o schema precostituito e storicamente consolidato in fatto di musica, da qualsiasi direzione culturale egli provenga, mettendosi in prima persona in discussione e al servizio della musica. In altre parole, occorre per un attimo saper dimenticare non solo le proprie preferenze musicali, ma anche rinunciare a voler inquadrare forzatamente la sua opera in un preciso ambito stilistico: il jazz, piuttosto che la musica accademica, la new age piuttosto che la world music, per fare solo degli esempi. Tutto questo pur potendo tranquillamente rintracciare tali elementi esplicati al meglio nella sua musica. Altrimenti si va incontro ad un maldestro approccio che porta e ha già portato inevitabilmente ad utilizzare criteri di valutazione impropri e a delle distorsioni critiche. Non a caso musicologi ed esperti di chiara fama, come Piero Rattalino e Marcello Piras, pur provenendo da campi musicologici agli antipodi tra loro (l’uno accademico, l’altro prettamente jazzistico), sono incorsi entrambi in giudizi critici sul Nostro che letti oggi risultano essere chiare bucce di banana su cui sono involontariamente scivolati. Ma non sono i soli, visto che altri, specie nell’ambiente jazzistico, hanno dovuto cambiare giudizio critico in corsa, in particolare dopo l’avvento dello Standards Trio, da considerarsi comunque l’esperienza più matura e, forse, il contributo più rilevante del pianista in ambito strettamente jazzistico.
Sarebbe tuttavia erroneo valutare l’opera di Jarrett, specie quella pianistica, sotto la ristretta ottica della musica afro-americana. Il fatto è che raramente un musicista ha saputo essere interprete del suo tempo come Jarrett. Un’epoca in cui lo scambio culturale interplanetario, sospinto anche dall’enorme sviluppo dei mezzi di trasporto e telecomunicazione ha permesso un sempre più rapido contatto tra genti e culture assai diverse tra loro, favorendo un processo di “contaminazione” e di “globalizzazione” anche in campo artistico e musicale; un processo che potremmo schematicamente definire come “cosmopolitismo musicale” e rintracciare, a mo’ di splendido esempio, nella sintesi artistica del Nostro.


La sera del 24 gennaio del 1975, qualcosa di magico accadde all’Opera Haus di Colonia.
 
Opera Haus Colonia

 Keith Jarrett, pianista sulla breccia da una decina d’anni scarsi, cresciuto alla corte dei Jazz Messengers di Blakey, di Charles Lloyd e di Miles Davis, da qualche anno aveva avviato una fortunata collaborazione con il produttore discografico tedesco Manfred Eicher. Nel 1973 egli aveva inaugurato una serie di concerti (Brema e Losanna) durante i quali egli affrontava il pianoforte completamente alla cieca, senza l’ausilio di alcun supporto, in una sorta di improvvisazione totale che faceva leva non solo sulla sua esperienza nel jazz ma anche sulla sua solidissima preparazione classica (cominciò a suonare all’età di tre anni, a sette componeva già e fu allievo della Berklee School of Music).
Quella sera, Jarrett aveva chiesto che sul palco fosse portato uno Steinway, il suo pianoforte preferito, quello sul quale aveva per anni coltivato l’arte dell’improvvisazione. Qualcosa non andò nel verso giusto e lo Steinway non arrivò mai; sebbene molti dell’organizzazione cominciassero a tremare (Jarrett diventerà tristemente famoso anche per le sue sortite da primadonna), il pianista aveva chiesto che in sostituzione fosse portato uno dei due Bösendorfer che erano dietro le quinte, dopo averli provati. Ma quella sera era nata per essere speciale e, colmo di sfortuna, per un disguido, sul palco fu invece portato l’altro Bösendorfer. Tutti, Eicher compreso, erano a un passo dal gettare la spugna; ma non Jarrett che intravide in quella avversità uno stimolo in più per poter fare qualcosa di eccezionale.
Con molto ritardo, il concerto ebbe inizio.
"La cosa più importante in un mio concerto è la prima nota o le prime quattro note. Se hanno sufficiente tensione, il resto del concerto viene da sè, quasi naturalmente [...] bisogna solo raggiungere il nucleo della musica e poi questa suona da sola".
Ascoltate le prime cinque note del concerto. Più che tese sono sospese, come in levitazione. Poi il resto va da sé.


Le prime note del Koln Concert
"Se si è un improvvisatore, un vero improvvisatore, si deve avere familiarità con l'estasi (io direi "l'ispirazione", n.d.r.), altrimenti non si entra in contatto con la musica. Quando si compone si aspetta che questi attimi particolari giungano (appunto, l'ispirazione n.d.r.), in qualsiasi momento questo accada. Può anche darsi che oggi non arrivino. Ma quando s'improvvisa, alle otto di stasera per esempio, è necessario avere una tale familiarità con questo stato da poterlo raggiungere comunque".  (Keith Jarrett)

Il Köln Concert, registrato all’inizio del 1975, rappresenterà in breve e un po’ inaspettatamente per Jarrett, il vertice del suo successo discografico, il raggiungimento di una fama e una popolarità che riuscirà ad andare oltre il normale target di appassionati cui fino a quel momento si era rivolto e inevitabilmente darà una conseguente svolta alla sua carriera artistica e professionale. Eppure, guardando quel concerto a distanza di tempo, alla luce degli eventi successivi e con il necessario distacco, si deve paradossalmente considerare un caso a se stante nel panorama discografico jarrettiano e, tutto sommato, una delle sue prove musicalmente meno consistenti realizzate in tutta la sua carriera. Si tratta, come è noto dalle sue biografie, di un concerto sostanzialmente anomalo per svariate ragioni personali e negative circostanze organizzative, che tuttavia non impedirono a Jarrett di tirar fuori comunque il meglio compatibilmente con le circostanze. Un’esperienza questa che confermerà al suo autore come spesso la creazione artistica nasca più da situazioni di difficoltà, disarmonia e sofferenza piuttosto che dal benessere psico-fisico e che avrà modo di ripetere non infrequentemente negli anni a venire.
The Koln Concert
Le ragioni del successo senza precedenti di questo disco-concerto sono svariate e sono già state ben analizzate da altri, ma mi sembra siano legate, principalmente, da un lato ad una forma di ritualità nel gesto del suonare, dall’altro all’emozionalità della sua musica, magari esplicata in modo a tratti un po’ epidermico, ma che risulta alla fine essere assai diretta ed estremamente coinvolgente per l’ascoltatore-spettatore, che coglie così la sensazione di assistere e compartecipare ad un evento, piuttosto che ad una semplice ed usuale esibizione musicale.
Quel che è certo è che Jarrett con questo concerto ha avvicinato intere schiere di nuovi adepti non solo nel mondo della sua musica, ma anche indirettamente a quello del jazz e della musica improvvisata americana tout court. Un merito certo non trascurabile, che, in questo, lo accomuna ad un grande maestro-predecessore che aveva recentemente contribuito al suo lancio, il mitico Miles Davis, ma anche ad altre figure musicalmente trasversali e storiche del jazz, come un Louis Armstrong o un Benny Goodman, tanto per citare.
In realtà, certa emozionalità un po’ epidermica, nonostante l’indiscutibile successo del disco, sarà presto abbandonata da Jarrett che dimostrerà, come sempre nella sua carriera, estremo rigore musicale e scarsissima propensione alla concessione commerciale ed all’ammiccamento, cosa che non si potrà certo dire di tanti altri affermati pianisti coevi, come Chick Corea e Herbie Hancock, in fondo jazzisticamente assai meno discussi e curiosamente più accettati dall’establishment jazzistico, nonostante le numerose scivolate nel kitsch più inverecondo.
Le prime note sono di attesa, come se Jarrett e il Bösedorfer fossero due belve che si stessero studiando, occhi negli occhi. Il suono del pianoforte era qualcosa che andava aldilà delle più nere previsioni; sembrava uscire da uno strumento da barrell house (pare che non fosse stato nemmeno revisionato!) e non da un gran coda da concerto. Gli acuti erano al limite dello stridore e i bassi al limite della sordità; davvero, chiunque avrebbe chiuso il coperchio e salutato il pubblico!
I primi minuti sono la reale descrizione di una suspance vissuta in diretta, ma poi Jarrett si getta a capofitto in quest’avventura che, nel bene e nel male, segnerà il panismo jazz e new age dei successivi 20 anni. Un’avventura dalla durata complessiva di circa un’ora; il concerto si compone di 4 parti o, meglio, di due parti e quattro sezioni (part I, part IIa, part IIb, part IId).
Memories of tomorrow
I mugolii di gouldiana memoria, gli accordi multirivoltati e complessi (abbondano le settime sensibili e le none), la mano sinistra intrappolata da pause lunghissime, gli stomp del piede destro sul pedale e quelle lunghissime scale, che alternano i modi maggiore e minore in un flusso velocissimo, ibrido e irrisolto per almeno 15 minuti, contraddistinguono la prima parte (lunga circa 26 minuti), che, dopo una modulazione estremamente complessa, si conclude con una cavalcata gospel (riferimento fondamentale del jazz di Jarrett).
La seconda parte, sezione IIa, ci fa capire subito in quale ambito timbricamente vincolato nacque e si sviluppò l’armonia della performance; Jarrett con la mano sinistra sui bassi non poté far altro che cercare i ritmi più ossessivi (e li trovò!) tra ribattuti velocissimi e salti d’ottava sugli accenti secondari. Un ritmo spasmodico e ossessivo sul quale si avvicendano pezzi sparsi di melodie rag che appena nascono si aggrovigliano attorno alle blue note (il fa bequadro e il do naturale, ma anche il si bemolle) formando un impasse melodico che raramente si riscontra nella discografia jazz (la memoria non può che andare al più grande pianista jazz di sempre, Art Tatum). Il tutto confinato tra il re basso e il do acuto, intervallo che racchiudeva le uniche possibilità espressive di quel Bösendorfer.
La seconda sezione, la IIb, è probabilmente il lascito maggiore a tutta una schiera di pianisti new age che di lì a poco avrebbe invaso il mercato discografico; dopo un inizio tranquillo che presto si rivela ipnotico, di tanto in tanto rotto da piccole volatine verso l’alto come i guizzi improvvisi che turbano le acque stagnanti di qualche palude del sud, il brano si abbandona a una serie lunghissima e sfinente di trilli e tremoli che, attraverso una modulazione intricatissima tanto da far perdere davvero l’orientamento armonico e di tempo (6+3/16, 12+2/16, 5/8, 6+2/8, 7/8, 9/8 i metri ritmici che si susseguono), ci porta dall’iniziale tonalità di La maggiore a quella di Lab maggiore. Su questa tonalità Jarrett chiude il brano con una lunghissima coda che riprende le atmosfere di inizio concerto.
Una piccola pausa e Jarrett, dopo 50 minuti in cui ha praticamente esaurito tutte le possibilità espressive di quello strumento, riconduce l’auditorio nel regno sovrano del jazz. Si tratta di un ritorno “alla casa dei padri” (Powell su tutti, si ricordi la sua Body and Soul), un brano in cui i patterns armonici e cromatici degli standards fungono da sostegno a una mano destra che continua ad avventurarsi in scale e arpeggi mozzafiato, ma estremamente melodici. Il tutto si placa nella morbida coda di Do maggiore, placida come il finale della Fantasia di Schumann.
Eicher e Jarrett, dopo aver riascoltato il nastro decisero che, nonostante tutte le avversità, il materiale registrato era “musicalmente coerente” e, grazie all’ingegner Wieland, essa fu migliorata per essere incisa. Il concerto fu dapprima edito su doppio vinile e distribuito nello stesso anno; la rivista Times, sempre nel 1975, premiò The Köln Concert con il Record of the Year Award. Nel 1978 esso aveva già venduto quasi 1.500.000 copie, cifra che raramente si sfiora nel jazz. Nel 1990 l’ECM immise sul mercato la rimasterizzazione di The Köln Concert su un unico cd, scelta rivelatasi azzeccatissima, tanto da portare a quasi 5.000.000 il numero delle copie vendute!.
Nel 1974, una rivista americana si esprimeva in questi termini: “[Jarrett] è un maestro d’improvvisazione e possiede una tecnica che pianisti del calibro di Horowitz o Rubinstein potrebbero ammirare; la sua tecnica è la più notevole da Art Tatum in poi”. Jarrett non molto più in là negli anni approfondirà questo suo retaggio “europeo” essenzialmente armonico-melodico (dapprima con sodalizi artistici e poi con le incisioni di Bach, Händel, Mozart e Shostakovich), rendendo evidente anche ai suoi detrattori quale sia stato il vero impatto sul panismo jazz di questo americano della Pennsylvania. The Köln Concert è la chiave del suo pianismo improvvisativo e di come in esso l’esperienza “classica” sia messa al servizio del gospel, del rag e del jazz tutto.

La musica che si propone di eseguire Jarrett è dunque tutta espressa nell’attimo stesso in cui viene eseguita: forme, strutture, ritmi, melodie, colori, timbri e moods espressivi, tutto viene inventato al momento, nell’incontro spazio-temporale espresso dall’esibizione concertistica, basandosi semplicemente sull’ispirazione, sul proprio retroterra culturale, sulla propria consapevolezza di musicista e nella massima fiducia delle proprie risorse tecnico-espressive, tramutando l’esecuzione musicale in una vera e propria esperienza vitale, totalmente coinvolgente per se stesso e per chi ascolta. Si tratta, più che altro, di un’innovazione nell’approccio alla musica, di carattere pressoché mistico e che non può essere compresa senza un altrettanto orecchio mistico. Argomentazione questa che ha sempre stentato ad essere accettata dalla critica più ortodossa e tradizionale, diffidente a considerare certe componenti extra-musicali e che tende invece ad attribuire alla gestualità apparentemente scomposta ed eccessiva del pianista un atteggiamento puerilmente esibizionistico ed una manifestazione dell’ego. Si tratta invece del suo esatto contrario, poiché Jarrett mette invece al centro la (sua) musica e non se stesso, mentre il giudizio critico sulla musica è spesso distorto e “distratto” visivamente dalle movenze del suo esecutore.
Country SOLO
Sta di fatto che le profonde implicazioni filosofiche e spirituali che Jarrett sembra suggerire col suo innovativo approccio non sembrano essere ancora state seriamente prese in considerazione, soprattutto da chi poco frequenta certe discipline mistiche, cui Jarrett fa direttamente o indirettamente riferimento e che peraltro sono state più volte citate nelle biografie e su svariate note discografiche che accompagnano i suoi CD.
Jarrett costringe ad un necessario mutamento di approccio nell’ascolto, scevro dal canone usuale di valutazione (tipicamente utilizzato da chi proviene, in particolare dalla musica accademica), che fa dell’equilibrio formale, del rigore strutturale e della logica nello sviluppo melodico-armonico elementi irrinunciabili di valutazione estetica, enfatizzando, senza ovviamente dimenticare i precedenti, la creazione istantanea e il valore della spontaneità nell’esperienza del suonare, ossia valori forse non propriamente intellettuali, ma certamente più idonei a valutare la musica improvvisata. Non a caso Jarrett afferma nel suo “Desiderio feroce”: “Io non mi sento esattamente un musicista. Quando mi ascolto suonare, ci sono momenti in cui realizzo che non si tratta solo di musica”. Per Jarrett non esiste infatti un confine tra musica e vita: per lui il musicista è qualcuno che è trasformato da quello che sente e da quello che suona.
D’altro canto, curiosamente egli non potrebbe essere nemmeno giudicato con i criteri propri della musica afro-americana, nonostante sia e sia sempre stato un musicista di chiara estrazione jazzistica. Da questi concerti, infatti, Jarrett comincia a far intravedere sempre più chiaramente che il jazz è solo una (forse la principale, ma non certamente l’unica) delle fonti d’ispirazione cui attingere, in un coacervo fatto di molteplici elementi: dalla canzone popolare alla new age, dagli inni sacri e profani sino alla musica classica europea e americana (a lui ben note sin dall’infanzia) e molto altro ancora, portandolo a rientrare, come sostiene acutamente Gianni Morelembaum Gualberto, più nell’ambito della cosiddetta “Americana” che in quello del Jazz.
Pur tenendo presente tutti questi innovativi elementi nell’ascolto del cofanetto, si deve tuttavia ammettere che i due concerti, specie il primo, quello di Losanna del Marzo 1973, non possono ancora dirsi opere mature o dei capolavori, che comunque non tarderanno ad arrivare di lì a pochi anni. Entrambi i concerti contengono validi spunti musicali, con note di eccellenza per il concerto di Brema, che sembra essere complessivamente il più organico, ispirato e riuscito dei due. Eccellente anche il breve bis al concerto (Encore), un brano di difficilissima esecuzione tecnica, contenente una sua superlativa improvvisazione, che Jarrett riproporrà brillantemente in diverse altre circostanze concertistiche.

A conferma di quanto affermato, il 1976 si rivelerà un anno decisivo e di svolta per le esibizioni in piano solo di Jarrett, con la produzione di alcune delle sue opere più mature, come Staircase, e soprattutto con l’arditissima pubblicazione contemporanea di cinque consecutivi concerti dell’autunnale tournée giapponese, che personalmente considero la sua opera più rappresentativa di piano solo improvvisato: Sun bear concerts.
Staircase è un’opera di transizione nell’estetica jarrettiana e, soprattutto, risulterà a tutt’oggi l’ultimo lavoro di piano solo registrato in studio da Jarrett. Si tratta, di un’opera formalmente compiuta, già molto diversa e in definitiva assai più profonda rispetto al concerto di Colonia. Anche se registrata al Davout Studio di Parigi nel Maggio di quell’anno, sempre d’opera totalmente improvvisata trattasi, ma questa volta pensata e strutturata organicamente in quattro parti distinte: Staircase, appunto, Hourglass, Sundial e Sand (scalinata, clessidra, meridiana, e sabbia intesa come trascorrere del tempo sono le traduzioni delle parole. ndr), ognuna delle quali sembra possedere motivazioni ispiratrici diverse e, in definitiva anche emozioni diverse. Decisamente una bella e calibrata prova del Nostro che, pur affrancandosi notevolmente dalle concezioni jazzistiche più ortodosse, sembra fatta apposta per contraddire le già numerose critiche provenienti dalla critica jazz più rigida ed intransigente dopo la pubblicazione del concerto di Colonia. Più di un critico attento riesce infatti a mettere obiettivamente in rilievo la valenza di questa opera, che rivela appieno, specie in il Hourglass, il talento pianistico e melodico di Jarrett e la molteplicità delle sue fonti ispiratrici.
Sapporo
Ma è con i Sun bear concerts che Jarrett tocca forse la vetta più alta ed innovativa della sua idea di pianoforte solo improvvisato, basata sul concetto, portato alle estreme conseguenze, di libera improvvisazione, così ben sviluppata nell’evoluzione della musica afro-americana e alla quale anche Jarrett fa indubbiamente riferimento. Un’improvvisazione che potremmo definire “totale” e che, se da un lato non parte solo e semplicemente prendendo spunto da un tema base, o da una struttura armonica, come normalmente viene intesa, dall’altro non richiede nemmeno la distruzione e la frammentazione dei suoi elementi costituenti per raggiungere quel grado di libertà così fortemente ricercato da grandi personaggi di riferimento jazzistico nel periodo, come Cecil Taylor, in qualche modo da considerarsi, nell’estetica, un suo stimato alter-ego. La libertà che cerca Jarrett, pur avendo alcuni punti in comune è, infatti, una libertà diversa, priva di iconoclastie, che rifugge di principio qualsiasi genere o momento di cacofonia e che si ripropone di elevare al massimo grado il potenziale espressivo e creativo dell’artista nell’atto del suonare.
Due opere assai diverse tra loro ma entrambe molto significative, come Dark Intervals e Solo Tribute (edizione questa in realtà distribuita ancora in video), registrate alla Suntory Hall di Tokyo rispettivamente l’11 e il 14 Aprile 1987.
In questo senso Dark Intervals costituisce uno dei suoi concerti più significativi, anche se all’apparenza un po’ lugubre e che farà da riferimento per tutte le successive pubblicazioni concertistiche. Un’esibizione in cui Jarrett sembra voler sviluppare in musica il concetto di silenzio, in varie forme e modalità, riferendosi in particolare ad una sua precisa forma: la pausa musicale. Una pausa (con la quale si sottintende il dark interval del titolo) spesso breve, infinitesimale, in cui il pensiero e le mani “meditano” allo scopo di decidere la direzione da dare ai suoni successivi.
Impressiona, anche se forse esteticamente può lasciare perplessi, un brano come Opening in cui, d’altro canto, Jarrett sembra esplicare in musica quel concetto di ricerca “feroce” dell’energia creativa che è in fondo la radice prima di ogni sua buona improvvisazione.
Hymn
Hymn


Con il Paris concert, del 1988, Jarrett compie un ulteriore passo avanti verso l’approfondimento mistico in musica introducendo qualcosa di fortemente “bachiano” nelle sue performance. “Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio. La sua opera è generatrice di divinità. Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, è necessario che Egli esista. Altrimenti tutta l’opera del Kantor sarebbe una straziante illusione. E pensare che tanti teologi hanno perso giornate e notti a cercare le prove dell’esistenza di Dio, dimenticando l’unica”. Questa citazione di Cioran, meglio di ogni altra esprime a parole la perfezione universale, pressoché cosmica, della musica di J.S. Bach, autore che più di ogni altro sembra avvicinarsi con la sua arte a Dio.
Nella lunga introduzione al brano semplicemente intitolato 17 Ottobre 1988, Jarrett è pronto a cogliere e ad assimilare perfettamente, nel suo eloquio, la componente trascendente nella musica del suo illustre predecessore. Non a caso proprio in quel periodo Keith studia e approfondisce la lezione del grande maestro tedesco, pubblicando le sue interpretazioni del Clavicembalo Ben Temperato. L’approfondimento si coglie del resto anche nell’ambito delle contemporanee pubblicazioni in Trio (si veda ad esempio Autumn leaves, in Still Live o l’introduzione di All the things you are, in Tribute o l’esecuzione a due voci di Woodyn You, in The Cure), dove le sue improvvisazioni più “jazzistiche” acquisiscono un evidente carattere “bachiano” e una bellissima tendenza allo sviluppo “fugato” e polifonico del discorso musicale.
Prism



Paris concert non si distingue tuttavia solo per il lungo brano citato, in fondo da considerare una prosecuzione del discorso iniziato con Dark Intervals. Esso riporta, infatti, due bellissimi brani di estrazione più propriamente jazzistica, mai abbandonata o rinnegata da Jarrett in carriera, rispolverando un brano come The Wind, del misconosciuto pianista West Coast anni ’50 Russ Freeman e una sua notevole improvvisazione su blues.
blues
Blues
The wind
The wind

 Un’alternanza di proposte che ripeterà sempre più spesso nei concerti successivi e che dimostra ancora una volta la sua grande cultura jazzistica.
Il Vienna concert, pubblicato nel 1993 ma registrato nel 1991, prosegue sulla strada già tracciata ed è sicuramente un altro riuscito episodio che documenta forse una delle sue migliori performance in piano solo improvvisato d’ispirazione classica. Gli elementi afro-americani qui sono infatti volutamente ridotti all’osso, ma la sua consapevolezza di musicista ormai maturo e personale sembra ormai emergere in modo quasi carismatico, producendo comunque sintesi musicali interessanti e confermando enormi capacità di generare momenti musicali di rara bellezza. “Ormai, quando un pianista si scopre disposto a uscire dalle griglie del jazz o della tradizione colta per entrare in un terreno che sia di tante o di tutte le culture, si dice che suona alla Jarrett. Il modello è lui, non perché oggetto consapevole di imitazione, ma perché il suo modo di suonare ha già esplorato infinite sintesi possibili. Ormai, suonare il pianoforte cosiddetto di confine rende tutti, ineluttabilmente, epigoni di Jarrett”


Considero, infine, il concerto del 13 febbraio 1995 al Teatro alla Scala il suo concerto in piano solo più riuscito dai tempi del Sun Bear Concerts. Si tratta, a mio avviso, di un nuovo apogeo della sua arte, dopo il quale, con l’eccezione del particolare The melody at night with you, un disco bellissimo, registrato in casa nel periodo della lunga malattia, ma crepuscolare e di tutt’altra poetica, Jarrett non ha più inciso in questo tipo di situazione.
Somewhere over the rainbow
Somewhere over the rainbow


I love you Porgy
I love you Porgy
E’ questo un concerto in cui si trova di tutto, dalle influenze orientali, alla musica accademica, dallo standard, all’atonalità jazzistica, in un’esibizione che lascio alla bella e adatta descrizione contenuta nella cronaca dell’epoca di Franco Fayenz: “E’ il momento dunque. Il pianista ha un attimo di esitazione davanti alla tastiera, poi ecco un ricciolo di note che subito ne richiama un altro e prende quota su un tempo medio-lento. Chi se ne intende capisce che il seme è buono. Il flusso è postromantico, di grande poesia. La gestualità di Jarrett è la solita: si alza in piedi, ondeggia davanti allo strumento, si china sino a sfiorare la tastiera con la fronte alla maniera di Bill Evans. Ogni tanto mugola o canticchia, abbandona il pedale, picchia il pavimento col piede destro. Il clima quasi chopiniano cede insensibilmente il luogo a un motivo orientale. Poi i suoni tendono a dare segni d’incertezza e perfino a spegnersi. E’ il momento in cui l’improvvisazione brancola alla ricerca di un nuovo nucleo. Jarrett lo trova, inventa un ritmo fosco e ostinato, accenna a melodie poi negate, attinge a depositi della memoria e frantuma assieme Bill Evans e ragas indiano, Stephen Foster e Chopin, Liszt e Bud Powell. Il pubblico segue rapito, attonito. E quando dopo tre quarti d’ora, Jarrett rientra fra le quinte, scatta in un applauso impressionante e lo richiama per cinque volte. Prendo nota che la Scala ha ottenuto l’intervallo che il nostro, di regola, nega. Adesso per lui è come se cominciasse un secondo concerto. Capisco che il seme è di nuovo fecondo, ma porta da tutt’altra parte, verso la contemporaneità e verso un linguaggio più conciso e sicuro, fitto di riferimenti alle sue esperienze classiche. Un interludio romantico conduce a un epilogo informale stranamente dolce, esposto a mani incrociate, che termina con un “alt” brusco e inatteso, stupendo.
E’ trascorsa un’altra mezz’ora, la sala esplode. Le chiamate non si contano, i bis sono quattro: un blues, il vecchio Danny boy reinventato, un flamenco, il delizioso Over the raimbow. Jarrett trasforma lo standard nell’adagio di una sonata, ed è il trionfo”.
Ma l’ultima parola spetta a lui, a Keith Jarrett che con un’immagine quasi eterea cerca di condurci nel suo mondo musicale e improvvisativo:
“Le note mi arrivano come un vapore sottile, come vapore acqueo. E io cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell'aria.”  (Keith Jarrett)


Keith Jarrett


.















Nessun commento:

Posta un commento