OFFRAMP
Copertina OFFRAMP |
“Mi sento come un reporter del mondo
contemporaneo, con la mia musica cerco di rappresentarlo nel modo
più diretto possibile, da artista senza pregiudizi.” (Pat Metheny)
E’ considerato uno dei più grandi
chitarristi jazz contemporanei, un eccellente e raffinato compositore e un uomo
sensibile e umile, cosa assai rara nel mondo della musica. Stiamo parlando di
Pat Metheny, 59 anni, virtuoso delle sei corde con alle spalle 40 anni di
straordinaria carriera. Ha iniziato giovanissimo nella band del vibrafonista
Gary Burton, poi si è iscritto al prestigioso college Berkley a Boston. Dopo
pochi mesi, grazie al suo innato talento musicale è passato all’insegnamento.
Nel 1975 debutta con l’album “Bright size life” con il giovane talento del
basso Jaco Pastorius. Nel 1976 al festival jazz di Wichita (Usa) conosce il
pianista Lyle Mays. Tra i due musicisti nasce una profonda amicizia e un
intenso sodalizio artistico. Nel 1977 i due fondano il Pat Metheny Group con
Danny Gottlieb alla batteria e Mark Egan al basso. Girano in lungo e in largo
gli Stati Uniti per farsi conoscere dal grande pubblico del jazz. Nel 1978
pubblica il primo album del Metheny Group che riscuote un notevole successo in
patria. Il 1979 è l’anno del grande successo di vendite con l’album “American
Garage”. La sua fama pian piano giunge anche in Europa. La critica musicale si
accorge di questo grande talento della chitarra che suona senza mai stancarsi
nei concerti. Pat Metheny colpisce per la sua tecnica strabiliante e per il
suono estremamente pulito, cristallino. Anche nei fraseggi più virtuosistici è
sempre melodico. Quando suona la chitarra acustica emerge il lato più romantico
del suo bagaglio tecnico. Nei suoi delicati arpeggi c’è tutto l’universo del
folk americano, un patrimonio musicale immenso. Dopo una serie di dischi jazz
come “80-81” e folk come “New Chatauqua”, nel 1981 registra “Offramp”, il disco
della svolta sonora che è tutt’ora considerato il capolavoro creativo del Pat
Metheny Group.
Il disco scalò rapidamente le
classifiche jazz americane e vinse due Grammy più il premio per il miglior
disco jazz del 1982. Da “Offramp” in poi la carriera di Metheny sarà sempre in
crescendo, conquistando consensi sempre più ampi, senza smettere però di
rinnovarsi e dedicarsi alla ricerca di nuovi linguaggi musicali.
"Offramp" è il 4° lavoro frutto della collaborazione con la band,
(con Lyle Mays in primis, Rodby e Gottlieb) e si compone di 7 brani, per una
durata massima dei vecchi classici 45 minuti, di dolcezza e virtuosismo.Il cd si apre con una sorta di urlo, un brano tirato con un ritmo quasi ossessivo e cadenzato su cui una chitarra si lamenta arrivando a colpire al cuore l’ascoltatore, ma con delicatezza e introspezione, lasciandoci sospesi e galleggianti come una "barcarola"... ma per poco perché l'attacco del brano successivo, il migliore del cd "Are you going with me?", è come una scrollata, una scossa improvvisa col suo intro quieto e la successiva apertura a metà brano scandita dall'ingresso della chitarra e dei suoi effetti. Un brano di una bellezza struggente e un po' retrò, con quella finta sordina fatta al synth...
E poi "Au lait", brano che non potrebbe avere titolo più indicato... una carezza... obbligatorio chiudere gli occhi.
Quindi l'episodio Jazz in piena regola di "Eighteen", e di "James", con vari virtuosismi chitarra-piano-percussioni, e la splendida chiusura di "The Bat", brano etereo d'atmosfera.
E per ultima la title track, che sembra discostarsi talmente dal resto del cd da sembrare quasi un brano preso altrove: "Offramp", fin dall’inizio lascia intendere che non si tratta di una melodia con una struttura ben precisa e canonica, ma sembra pura improvvisazione e virtuosismo, tecnicamente ineccepibile ma dall'ascolto ostico.
The Bat |
James |
Il termine fusion sta abbastanza stretto
alla concezione musicale di Pat Metheny. Il chitarrista ha sempre cercato di
fondere l’improvvisazione jazzistica e l’orchestrazione della musica classica.
Per “Offramp” il suo obiettivo è quello di coniugare i due linguaggi citati con
la musica brasiliana e l’uso di nuovi strumenti elettronici come la chitarra
sintetizzatore e il sinclavier.
Per questo album arrivano due nuovi
strumentisti: il contrabbassista e direttore d’orchestra Steve Rodby e il
percussionista brasiliano Nana Vasconcelos. Il disco viene registrato negli
studi di registrazione Power Station di New York, nell’ottobre del 1981. Le
composizioni sono incise praticamente dal vivo, soltanto alcune parti di
tastiere elettroniche vengono sovraincise. Nonostante la complessità dei brani
si percepisce l’immediatezza e la presa diretta del suono live. Il brano di
apertura, “Barcarole” ha una base ritmica etnica su cui Metheny suona per la
prima volta la chitarra synth Roland che ha un suono simile alla tromba.
All’epoca era uno strumento rivoluzionario di grande effetto. Altri chitarristi
che hanno usato questo strumento sono Robert Fripp, Allan Holdsworth e John
McLaughlin. Poi è la volta di una delle composizioni più note e amate di
Metheny, ovvero “Are you going with me?”. “Offramp” è una sorta di omaggio al
free-jazz di Ornette Coleman, uno dei punti di riferimento del chitarrista di
Lee’s Summit. Poi spiccano “James”, gustoso omaggio ad un altro amato
musicista, James Taylor e l’intensa e struggente “The Bat”, con i
sintetizzatori di Lyle Mays in grande evidenza.
Offramp resta un cd storico nella produzione di Metheny, pulito, perfetto,
emozionale.
RETURN TO FOREVER
Copertina RETURN TO FOREVER |
Bazzicando
tra il jazz, il catalogo ECM e i suoi immediati dintorni è praticamente
impossibile non imbattersi in Armando Anthony Corea, detto "Chick".
Ma sarebbe meglio dire in uno dei tanti
Chick Corea esistenti: dal jazzista ortodosso ma già un po'
latineggiante degli esordi a quello già aperto verso il rock del fondamentale "Bitches
Brew" di Miles Davis, dal compositore colto e quasi classico delle "Piano
Improvisations" al funambolo delle tastiere che ha rivestito di suoni
cristallini il soul-funky un po' freddino ma tecnicamente impeccabile della
Elektric Band. Ecco, la costante è proprio questa, la tecnica assolutamente sempre all'altezza, qualunque sia il genere in
cui si è cimentato questo versatilissimo pianista. Magari un Keith
Jarrett si fa preferire nelle improvvisazioni per pianoforte solo, magari un
Joe Zawinul si impone come virtuoso delle tastiere elettroniche che illuminano
e colorano le forti basi ritmiche della "fusion", ma per trovare uno
che in entrambi i campi (e in altri ancora) abbia raggiunto livelli di eccellenza,
bisogna rivolgersi a Chick Corea.
Una delle
sue fasi più originali e personali è certamente quella "latina" dei
primi anni '70, che ha in questo affascinante "Return To Forever"
il suo prodotto più famoso, se non proprio il migliore. Il titolo è anche il
nome della formazione che accompagna il pianista: il fido Joe Farrell a fare l'Eric
Dolphy della situazione, diviso tra flauto e sax soprano, Stan Clarke al basso (e
contrabbasso), Airto Moreira
tra batteria e percussioni, e la cantante Flora Purim a spargere su tutto i suoi vocalizzi angelici.
Come si vede, una formazione mista, in parte latinoamericana, e particolare,
priva tra l'altro di un chitarrista. Molto particolare è anche il piano elettrico usato da Chick Corea
in questo frangenteche permette vengano fuori una collana di note così limpide e risonanti da sembrare a tratti
uscite da un vibrafono. Se poi a queste dolci note si uniscono i voli felpati di un flauto libero di svariare,
un placido basso che sta quasi
sempre sulle sue, percussioni secche e
metalliche, ma sempre contenute entro il limite del rumore, e un canto soave piuttosto che acuto, si
può capire che in questo disco tutto è smussato, privo di angolosità.
Crystal silence |
Per certi
versi siamo più vicini alla "ambient music" che al jazz, il che
sembra in contraddizione con i ritmi latini, che certamente sono protagonisti,
ma mai a livello di chiassoso Carnevale. Piuttosto c'è una sublimazione della
spiritualità contenuta in questi ritmi, non molto dissimile da quella esaltata
anche da Carlos Santana in "Caravanserai". Se si esclude "What
Game Shall We Play Today", che potrebbe passare tranquillamente per un
classico brasiliano di Antonio Carlos Jobim, con Flora Purim nella parte di
Astrud Gilberto, il resto del disco è costruito prevalentemente in forma di lunghe suites. Come la bellissima "Return
To Forever", con la sua introduzione ipnotica, in cui piano, flauto e
voce hanno un ruolo fondamentale, che riescono a mantenere anche quando
irrompono ritmi decisamente latini. O come "Sometimes Ago - La
Fiesta", con una lunga preparazione che vede il basso in evidenza per
la prima e unica volta, seguita dal lento sorgere di un tema ("Sometimes
Ago") tratto da una delle classiche improvvisazioni per piano di un
Chick Corea di soli due anni prima, eppure totalmente diverso. "La
Fiesta" conclude questo lunghissimo brano in un clima trionfale (come
da titolo) ma mai tale da offuscare le splendide melodie esposte all'inizio. Fa
specie a sé, ma come un prezioso esemplare di minerale raro, "Crystal Silence". Qui
si tocca l'apice della delicatezza e
dell'eleganza, grazie al magico motivo esposto dal sax soprano in uno
scintillio di piano elettrico e percussioni cha fa da sfondo vitreo. Sembra
musica suonata sott'acqua, che arriva in superficie sotto forma di lievi
increspature. Ma ciò vale anche per le molte languide pause che spezzano il
ritmo dei brani più mossi, facendo di "Return To Forever" un disco da ascoltare da cima a fondo ad
occhi chiusi, sognando.
TABULA RASA
(ArvoPart)
Copertina TABULA RASA |
Un'opera
d'arte è tanto più grande quanto meglio riesce ad esprimere ciò che il suo
autore ha dentro, e a volte riesce ad esprimere molto di più. Non importa
quindi lo strumento che si usa per fare arte, né come ci si arriva,
l'importante è il fine raggiunto. Un'opera d'arte può essere anche brutta, può
non corrispondere al proprio umore e alle proprie attitudini, questo è
indipendente dalla sua grandezza, per questo si può fare una canzone anche con
rumori o monumenti con rifiuti.
La grandezza
di Arvo Pärt sta nel fatto che le
parole chiave della sua musica sono "semplicità",
"silenzio", "bellezza", "profondità".
Riesce, come spesso i più grandi artisti, ad emozionare profondamente con
sobrietà e umiltà.
Arvo Pärt
chiama il suo stile tintinnabuli e dice a riguardo:
"I
tintinnabuli sono una zona in cui a volte vago quando sto cercando delle
risposte -sulla mia vita, sulla mia musica, sul mio lavoro. Nelle mie ore buie,
ho la certa sensazione che ogni cosa al di fuori di questa unica cosa non ha
significato. La complessità e la multi-sfaccettatura mi confondono solamente, e
devo ricercare l'unità. Ma cos'è questa unica cosa? E come posso trovare la mia
strada verso di essa? Tracce di questa cosa perfetta appaiono in molte
sembianze -ed ogni cosa che non è importante scivola via. Tintinnabuli è così.
Eccomi solo col silenzio. Ho scoperto che è abbastanza quando anche una sola
nota è magnificamente suonata. Questa unica nota, o un battito calmo, o un
momento di silenzio, mi confortano. Lavoro con pochissimi elementi -una voce,
due voci. Costruisco con i materiali più primitivi -con l'accordo perfetto, con
una specifica tonalità. Tre note di un accordo sono come campane ed è perciò
che chiamo questo tintinnabuli".
Arvo Pärt
nasce l'11 settembre 1935 a Paide in Estonia senza avere un preciso
insegnamento religioso. Diventa allievo di Heino Eller al conservatorio di
Tallin. Vivendo durante il regime sovietico ha pochi contatti con le
avanguardie musicali europee e americane. Verso i trent'anni entra in contatto
con la scuola di Darmstadt. Da qui diventa grande amico di Luigi Nono. Pärt
diventa il primo compositore estone a sperimentare e diffondere le tecniche
seriali nel suo paese insieme con la dodecafonia. Ma in breve non soddisfatto
da queste tecniche, si rende conto che l'atonalità non era lo strumento giusto
per esprimere le sue esigenze musicali. Si dedica quindi agli studi sul canto
gregoriano e sulla musica barocca, Bach diventa la sua passione e il suo mito insuperato.
Dopo un periodo di crisi creativa iniziato verso la fine degli anni '60, matura
quella che è la sua idea di tintinnabuli e musica sacra.
"Questo
è il mio obiettivo. Il tempo e il senza-tempo sono connessi. Questo istante e
l'eternità stanno lottando fra di noi. E questa è la causa di tutte le nostre
contraddizioni, la nostra ostinazione, la nostra mentalità limitata, la nostra
fede e la nostra angoscia".
Arvo Pärt è uno dei pochi e più grandi compositori di
musica sacra del ‘900, quella sacralità immersa nel materiale e
aggiornata nel secolo in cui Dio è morto e dove l'artista esprime il bisogno
dell'uomo "moderno" di una spiritualità profonda, e la sua personale
constatazione dell'esistenza di un Dio, in un clima culturale relativista che
in quanto tale non può permettersi di negarlo. I suoi lavori sono "opere
della sofferenza", quella sofferenza vera e profonda rappresentata dal
sacrificio di Cristo per l'umanità, che non può quindi essere ricreata
artificialmente, ma che ognuno può trovare dentro di sé quando si trova a dover
"portare la croce".
"Non
sarebbe stato difficile per gli apostoli aver vissuto nell'Unione Sovietica. E
lì ci sono persone meravigliose come loro. L'eroismo può fiorire in quel clima.
Ma non è assolutamente necessario per le persone vivere sotto tali condizioni.
Forse [la sofferenza] è più importante per qualcosa che avviene dentro di noi,
al di fuori del nostro stesso libero arbitrio. Ciò fa differenza nel modo in
cui si pensa se uno sia affamato o sazio. Dovremmo diventare tutti affamati per
quella ragione? Esiste per noi un livello più alto dell'essere affamati o sazi.
Non dovremmo permettere a noi stessi di affondare in queste due alternative
estreme".
Arvo Part |
Dopo il
periodo di crisi, nel '77 l'autore risorge con nuove composizioni:
"Tabula Rasa", "Fratres" in due versioni, e "Cantus
In Memoriam of Benjamin Britten". Questi brani furono pubblicati
dall'etichetta ECM nel 1984 nell'album "Tabula
Rasa" con musicisti illustri: Gidon Kremer al violino, Keith
Jarret al piano, Tatjana
Grindenko ancora al violino e Alfred Schnittke al piano preparato; con la partecipazione inoltre
di varie orchestre. Questi brani sono emblematici dello stile di Pärt, è una musica che viene dal paradiso, che
richiama il passato ma che trasporta verso qualcosa di mai sentito prima.
E' quella musica semplice e ascetica come un eremita, fatta di pochi elementi
ma capace di prendere al cuore, di segnare profondamente l'ascoltatore
regalandogli un'esperienza profonda e impossibile da dimenticare, è sicuramente una musica che può cambiare.
Queste
composizioni rimangono a mio avviso tra le più alte opere d'arte del secolo scorso, di cui mi risulta
veramente difficile parlarne essendo troppo riduttiva e incompleta qualsiasi
cosa riesca a dire. Non posso che invitarne all'ascolto essendo un dialogo
intimo con sé stessi.
Riguardo al
brano "Tabula Rasa", Pärt dice: "Sono sempre impaurito
dalle nuove idee', dissi a Gidon. ‘Pensi che debba essere un pezzo lento?',
Gidon disse:'Sì, certamente!'. E il pezzo fu terminato piuttosto velocemente.
L'orchestrazione richiama un pezzo di Alfred Schnittke che stava per essere
eseguito nello stesso periodo a Tallin. È musica per due violini, piano
preparato e archi. Quando i musicisti videro il risultato gridarono:'Dov'è la
musica?'. Ma finirono per suonarla molto bene. Fu molto bello. Fu tranquillo e
bello".
HOLON
Copertina HOLON |
È
difficile da definire la musica di Nik Bartsch e della sua formazione Ronin,
nome ispirato ai solitari samurai della tradizione giapponese. Zen Funk è
indicativamente una definizione presente sul sito del pianista svizzero, che ha
creato questo gruppo nel 2001 e che si accompagna al clarinettista-sassofonista
Sha, al bassista
Bjorn Meyer, al batterista Kaspar Rast ed al percussionista Andy Pupato.
L’originalità del progetto è indubbia e si palesa immediatamente attraverso un
minimalismo compositivo ed esecutivo inserito nell’alveo di una musica scarna,
moderna, apparentemente fredda ma molto avvolgente, che cattura ed ipnotizza
sin dalle prime note di questo Holon, il quale fa seguito ad altri
indefinibili e comunque (o proprio per questo) già apprezzati progetti di Nik
Bartsch. Se dovessi dare un riferimento all’ascoltatore ignaro sarei in
difficoltà ma oserei ricordare i grandi Soul Coughin dei loro (purtroppo) pochi
dischi, escludendo l’apporto fondamentale della voce ed immaginando un
prospetto musicale ancora più semplice, naturale e dilatato, meno rock e più
jazz-orientato. Non ci sono in realtà solisti in questa musica, i suoni sono
ben distinti e compenetrati e tendono a reiterare i motivi conduttori con
impercettibili variazioni che portano sorprendentemente poi da un’altra parte.
Il piano del leader si concede brevi fughe classicheggianti o sperimentali, mentre i fiati di Sha si inseriscono piuttosto nel gustoso e ricco magma ritmico che rappresenta la materia sonora pulsante su cui si muove il tutto, frutto di una straordinaria sensibilità negli altri componenti del gruppo, tutti votati a un’eccellente sintonia per una musica ipnotica e perfettamente preparata. Ci si immerge in un universo davvero speciale che, come invita a fare Bartsch nelle note di copertina, punta ad aprire le orecchie di chi ascolta, orecchie tarpate da troppi suoni inutili e talvolta salvate o riportate sulla retta via da musica innovativa come questa.La seconda ondata di minimalisti formata dai musicisti nati intorno agli anni sessanta, si è manifestata in forme diverse da quella dei progenitori: si è assistito ad un naturale riequilibrio tra generi, all'inserimento di nuovi elementi nelle forme più tradizionali, sono cominciati quegli incroci che hanno costituito naturale evoluzione di quello stile d'avanguardia; se nel continente americano i compositori hanno pensato ad irrobustirlo o a fonderlo con la musica ambientale, in Europa la tendenza è stata quella di miscelarlo nella tradizione classica; tuttavia le istanze progressiste non sono solo arrivate da compositori che operavano nella musica colta, ma anche da musicisti con preparazione jazzistica. E' il caso dei due gruppi che rappresentano probabilmente le più lungimiranti espressioni che il jazz abbia riscontrato in questi ultimi vent'anni assieme all'altrettanto valido movimento del nu-jazz, movimenti non perfettamente valutati dalla stampa, anche quella accreditata.
Il piano del leader si concede brevi fughe classicheggianti o sperimentali, mentre i fiati di Sha si inseriscono piuttosto nel gustoso e ricco magma ritmico che rappresenta la materia sonora pulsante su cui si muove il tutto, frutto di una straordinaria sensibilità negli altri componenti del gruppo, tutti votati a un’eccellente sintonia per una musica ipnotica e perfettamente preparata. Ci si immerge in un universo davvero speciale che, come invita a fare Bartsch nelle note di copertina, punta ad aprire le orecchie di chi ascolta, orecchie tarpate da troppi suoni inutili e talvolta salvate o riportate sulla retta via da musica innovativa come questa.La seconda ondata di minimalisti formata dai musicisti nati intorno agli anni sessanta, si è manifestata in forme diverse da quella dei progenitori: si è assistito ad un naturale riequilibrio tra generi, all'inserimento di nuovi elementi nelle forme più tradizionali, sono cominciati quegli incroci che hanno costituito naturale evoluzione di quello stile d'avanguardia; se nel continente americano i compositori hanno pensato ad irrobustirlo o a fonderlo con la musica ambientale, in Europa la tendenza è stata quella di miscelarlo nella tradizione classica; tuttavia le istanze progressiste non sono solo arrivate da compositori che operavano nella musica colta, ma anche da musicisti con preparazione jazzistica. E' il caso dei due gruppi che rappresentano probabilmente le più lungimiranti espressioni che il jazz abbia riscontrato in questi ultimi vent'anni assieme all'altrettanto valido movimento del nu-jazz, movimenti non perfettamente valutati dalla stampa, anche quella accreditata.
Modul 33 |
Il pianista
svizzero Nik Bartsch e il suo ensemble Ronin costituiscono una delle frange più
evolute del sound della ECM Records. Qualche tempo fa, leggendo una recensione
di un suo disco, l’autore inglese lo definì come un musicista compendio di
musica classica verso funk; la realtà invero è dibattuta perché Bartsch viene
costantemente inserito nel settore jazz, pur avendo un background musicale
molto più nutrito: il suo pianismo è minimale (nel senso della ripetizione di
gruppi di note), è costruito in moduli (tutti i brani vengono presentati ed
intitolati con la sigla Modul + numero) nel rispetto di una programmazione per
gradi della costruzione sonora che potrebbe avere il dono della interscambiabilità;
gran parte dell’affascinante e misterioso sound che ne fuoriesce è supportato
da un basso ed una batteria realmente funk (nel suo ultimo cd vi è anche
l’apporto di un sax che segue in maniera costante il programma musicale);
sprazzi di queste combinazioni di suoni modulari risentono di controtempi
jazzistici, ma in realtà l’improvvisazione (almeno quella canonica) è quasi
totalmente assente o meglio è imbottigliata nei "moduli". Comunque
sia, prima di lui, un altro gruppo giù utilizzava lo stesso metodo di
composizione: sono gli australiani The Necks composti da Chris Abrahams
(piano), Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (contrabbasso), che seppur con
variabili musicali diverse, specie nella lunghezza dei brani e nelle
interazioni con gli altri strumentisti (la batteria non è funk e il basso
elettrico è sostituito da un contrabbasso), condividevano con i Ronin lo stesso
risultato: molti critici ritengono che questo eclettico maquillage che attinge
agli umori dei generi musicali principali prendendone alla fine solo la radice
e che sostituisce al virtuosismo costruito sulla variabilità delle note del
pentagramma, un virtuosismo basato sulla intensa ripetibilità di un patterns di
note musicali, sia una delle strade future della musica e non si può negare che
questo atteggiamento musicale sia anche “emotivamente” accattivante.
I Necks
possono considerarsi un gruppo a se stante con una discografia già cospicua che
può e deve essere letta globalmente: già l'esordio con "Sex"
stabilisce le loro coordinate musicali: brani lunghissimi intorno all'ora di
musica, un "ipnotico" senso della ripetizione, un chiaro spirito jazz
dedito ad una improvvisazione di altro genere; difficile indicare quali siano
le migliori prove di fronte a tanta omogeneità stilistica; direi che i Necks
dei novanta si distinguevano per un influsso prevalente di jazz all'interno
delle loro suites, e sono anche quelli più "normali"; quelli più
progressivi hanno come portabandiera "Hanging Gardens", quelli più
ambientali si trovano in "Aether", quelli più sperimentali si trovano
in "See me through", quelli divisi tra tendenza classicista e umori
etnici orientaleggianti in "Townswille": ognuno può scegliersi il suo
disco di riferimento!
Bartsch si è presentato ad Umbria Jazz nell’ambito di un nuovo spazio
dedicato a Eicher e ai suoi musicisti, e sembra si sia fatto notare per avere
un’opinione piuttosto lungimirante nel giudizio della musica contemporanea. “Llyria” (ECM 2010) prende il nome
dalla recente scoperta di un essere marino sui fondali e vuol dare
probabilmente proprio l’impressione di un caratteristico ascolto da “ricerca”;
ormai l’artista è pienamente cosciente di aver creato un suo sound e in
quest’episodio il tentativo è quello di approfondirne i contenuti.
Anche "Silverwater", ultimo lavoro dei
Necks da annoverare tra i loro migliori, si arrichisce di ulteriori contributi
strumentali come spiega Jon Lusk su BBC Review del 4/12/2009, ....ma
"Silverwater" ha una maggiore varietà di suoni -molto belli e
intriganti, altri più inquietanti - rispetto alla maggior parte delle loro
creazioni. Ci sono gongs sontuosi, un organo vagante, nervosa elettronica
suonata in low-fi, ondate di chitarre elettriche in stile ambientale, il
tintinnio del suono dell'anklung (un sonaglio sintetico di bambù usato nella
musica tradizionale indonesiana) e anche qualche fischio. (mia traduzione),
con risultato quello di accrescere lo stato di "sospensione" della
composizione così come descrive Scaruffi nella sua recensione: ...il loro
metodo ipnotico rivela finalmente uno scopo metafisico, anche se il senso
ultimo dei loro cerimoniali infiniti rimane ancora criptato.....(mia
traduzione).
La mia
sensazione è che siamo di fronte a quelle forme d'arte che non vengono
adeguatamente comprese nel tempo in cui si realizzano ma che diventano le basi
di partenza per i movimenti musicali del domani.
REMEMBRANCE
Copertina REMEMBRANCE |
Ketil
Bjornstad non è solo un musicista e compositore jazz di estrazione classica, ma
anche un valente scrittore di temi contemporanei. L'attaccamento a questa forma
di arte pervade anche il profilo musicale, tant'è che l'artista nel corso della
sua carriera compone spesso su testi di poeti da lui ammirati (John Donne,
Edvard Munch, Edith Sodergran, ecc.). La sua originalità prende piede forse
proprio da questo connubio, perchè nei momenti migliori e più ispirati ha
saputo trarre linfa vitale per trasferire in maniera eccezionale quei
sentimenti profondi che erano dentro di lui. Ragazzo prodigio (a sedici anni
suonava il concerto n. 3 di Bartok), Bjornstad si caratterizza più per gli
effetti che riesce a produrre e meno che per il suo virtuosismo, che viene
tenuto sacrificato per fare emergere timbri e dinamiche, alla ricerca di uno
spazio musicale in cui sia possibile far confluire pause, silenzi e note
musicali: un pianista da "preludi" e "fughe che ha cavalcato
questi ultimi cinquant'anni di musica cercando di precostituirsi un proprio
ambito (come pianista si può considerare una via di mezzo tra barocco,
classicismo, impressionismo e le istanze "nordiche" moderne), sempre
alla ricerca dell'emotività delle cose, con un particolare interesse alla
contemplazione dell'acqua intesa in senso ampio (molti suoi albums verrano
intitolati tenendo presente questo riferimento).
La sua
carriera discografica si apre alla Philips nel 1973 con il suo primo album
"Apning" che ci presenta un pianista con una sua personalità ma con
riferimenti chiari al sound pianistico ritmico del pianista di eccellenza di
quel momento, ossia il Keith Jarrett di "Facing you" o di "Fort
Yawuh" tanto per intederci, e l'esperimento in gruppo a cui partecipa già
il bassista Arild Andersen e il batterista Jon Christensen, viene ripetuto in
"Berget det bla" l'anno dopo. Il Bjornstad di questi anni è
spensierato, fornisce all'ascoltatore delle "good vibrations" ma
tutto sommato non ha ancora quel "quid" che caratterizza un campione da
un suonatore ottimo: pubblica il suo primo disco solista al piano nel 75
"Tredje Dag" che sarà bissato nel 1979 dal più compiuto "Svart
Piano". "Finnes du noensteds ikveld" (1976) e il successivo
"Selenia" presentano per la prima volta un sax e spostano
l'attenzione dell'artista su un più marcato senso "nordico": in molti
momenti sembra essere in un disco del Garbarek anni settanta, ma l'attività
musicale del compositore svedese viene riconosciuta dal grande pubblico solo
con la sua prima rockopera "Leve Patagonia" (1978), che cerca di
presentare in modo originale una fusione tra rock, pop di matrice tradizionale
(usando anche il canto lirico in lingua) e intermezzi classici; Bjornstad
ripeterà spesso negli anni successivi quest'esperienza con "Aniara"
(dove fa uso anche di toni newage), "Natten" (1985), "The
Shadow" (1990). Si nota comunque una certa dispersione del musicista che
forse in quel momento è alla ricerca di popolarità: lo dimostrano le incursioni
"fusion" di "Tidevann (1980) e nella newage di "Engler I
snefen" (1982), che calcano le mode ma si presentano in una veste di
"cantabilità" un pò scontata. "Karen Mowait Suite" (1988)
invece lo presenta ormai immerso nell'elettronica ambientale con tocchi new
age. "Odissey" del 1991, ritorna ad un pianismo più puro con uno
spirito molto vicino agli esordi, ma quando il piano non è protagonista,
restano evidenti brani con minor spessore.
A questo
punto l'artista entra nella ECM: l'incontro con il cellista David Darling e con
il chitarrista Terje Rypdal gli fanno fare quel salto di qualità che ancora gli
mancava: gli album "acquatici" ("Water stories" (93), The
Sea I ('95), The river (96) e The Sea II ('98) lo riportano alla ribalta
internazionale: quegli aspetti "nostalgici" o "vissuti"
della sua discografia vengono enfatizzati con l'intelligente ausilio di grandi
musicisti partners e danno alla musica una sua originalità e profondità che
ristabilisce in grande l'equilibrio tra la preparazione classica del musicista
e l'applicazione dei teoremi nordici nel jazz. "Water Stories" può
essere considerato un vero e proprio documentario sulle evoluzioni del mare, in
un rapporto evocativo perfetto tra musica ed subdole immagini; "The sea
I" scava ancora più a fondo nell'immaginario rappresentando il lato più
cangiante ed umorale del mare, in simbiosi con i cambiamenti umani; "The
river", da solo con David Darling, viene pubblicato dopo che Bjornstad ha
passato un'intero inverno ad ascoltare la musica rinascimentale di William Byrd
e Orlando Gibbons, è necessariamente più austero ed introverso, ma possiede una
tensione (grazie ad un mirabile interplay fra i due musicisti) tale da farlo
passare per un testamento spirituale; "The sea II" riprende il
discorso di "The river" con una presenza musicale più forte dettata
dall'inserimento "pennellato" della batteria di Christensen e dei
meravigliosi ed espressivi "contorcimenti" chitarristici di Rypdal.
Di questo periodo concomitante è anche la proposizione di componimenti "classici" che vengono misurati sui due volumi di "Preludes" (originariamente pubblicati nel 1984-1985) e sui due volumi delle "Rosenborg Tapes" dove Bjornstad accanto alle sue composizioni rilegge sotto forma di variazioni i preludi e fughe di Bach (1998-1999).
Di questo periodo concomitante è anche la proposizione di componimenti "classici" che vengono misurati sui due volumi di "Preludes" (originariamente pubblicati nel 1984-1985) e sui due volumi delle "Rosenborg Tapes" dove Bjornstad accanto alle sue composizioni rilegge sotto forma di variazioni i preludi e fughe di Bach (1998-1999).
Ad inizio
decennio ancora un disco un pò più debole con David Darling "Epigraphs"
(2000), un tuffo nella moda del "nu jazz" e della modernità imperante
in Scandinavia (l'artista suona assieme all'Ensemble 96 gruppo corale norvegese
e ad altri artisti in cui spicca il trombettista Palle Mikkelborg) in "Old"
(2001), e in "Before the night" (2002) , che si divide tra
elettronica, spazi neoclassici, e aperture chitarristiche (Eivind Aarset) e poi
tutta una serie di albums in cui Bjornstad sviluppa il suo pianismo
"poetico" in chiaroscuro, con una particolare e già sperimentata
affezione alla musica pop/rock con intense voci al canto (Anneli Drecker e
Bendink Hofset, Christine Asbjornsen): vengono pubblicati "Grace"
(2000), "The nest" (2003), "Seafarer's song" (2004), che
potrebbe diventare un disco-manifesto dell'emigrazione contemporanea, e il
delicato ritorno ECM Records "The light: songs of love and fear"
(2008) strutturato come "songs cycle" in lingua nordica, cantante da
Randi Stene.
Gli ultimi
episodi discografici lo vedono intraprendere una forma più tradizionale di
jazz: "Floating" nel 2006 (con P. Danielsson/M. Mazur) e
"Devotions" (2007) sono albums in trio (con l'aggiunta in Devotions
di flauto), che forse per la prima volta mettono a nudo una nuova personalità
jazzistica protesa verso le radici delle soluzioni in trio alla Bill Evans,
alla ricerca di una rinnovata purezza dei suoni. "Remembrance"
prosegue in questa linea e accanto alla batteria di Christensen, ritorna in
maniera preponderante il sax, questa volta suonato da uno dei nuovi talenti
svedesi, Tore Brumborg.
Colori e
suoni olografici dove la tradizione pianistica euro-colta viene passata col chinoise
dell'improvvisazione, estratta dal nord europa. Remembrance è un lavoro
d'intimo aspetto, carico di lirismo, intriso di calma, relaxing audiotattile,
ben annotato nei tasti di Ketil Bjornstad
e più libero nelle originali costruzioni dinamiche di Jon Christensen. Nel palpabile interplay tra il leader ed
il batterista, costruito su di un rapporto di lunga durata, si inserisce Tore Brunborg, sassofonista
anch'egli norvegese che pone particolare attenzione ai timbri ed i colori,
prescindendo da qualsiasi virtuosismo, peraltro inutile in questo contesto
sonoro.
Undici
"ricordi" tutti autografati da Bjornstad, avvolti in un manto di
velluto comune che mettono in evidenza l'estrazione classica del
cinquantottenne pianista di Oslo, con passaggi lisztiani e billevansiani. Le
prime cinque tracce hanno una marcia monocorde, troppo legate agli stilemi
classici e timorose di infrangerne le regole. Una svolta armonica la si percepisce
dalla sesta in poi, soprattutto con i dialoghi tra batteria e pianoforte, con
Christensen che svolge un lavoro estremamente vario sul timbro, quasi
percussivo ed asimmetrico.
Un disco
contemplativo secondo lo stile di Bjornstad e di marca ECM, e che rispecchia
l'intimismo nordico più retrò.
Michael G. Nastos afferma che: "Remembrance certamente è una riflessione, la registrazione introspettiva, adatto per quei tempi, quando è necessario fare una pausa di preoccupazione e uno sguardo al proprio sè interiore".
Michael G. Nastos afferma che: "Remembrance certamente è una riflessione, la registrazione introspettiva, adatto per quei tempi, quando è necessario fare una pausa di preoccupazione e uno sguardo al proprio sè interiore".
Cercate, ascoltate, ripercorrete questa “strada” apertasi nel 1969 e troverete un uomo che ha scelto la Musica, e che da questa ha ottenuto il resto.
Un personaggio che non ha avuto paura di osare, di scegliere e di sorprendere, di andare al di là di ciò che tutti si aspettavano; e la cosa straordinaria è il fatto che lo faccia ancora oggi.
Se cercate qualcuno che svolge il mestiere di produttore, ma che in realtà è un “ascoltatore che distribuisce musica”, troverete Manfred Eicher.