lunedì 6 giugno 2016

Il variopinto mondo di ECM: cinque dischi




OFFRAMP 

Copertina OFFRAMP
 
“Mi sento come un reporter del mondo contemporaneo,  con la mia musica cerco di rappresentarlo  nel modo più diretto possibile, da artista senza pregiudizi.” (Pat Metheny)
E’ considerato uno dei più grandi chitarristi jazz contemporanei, un eccellente e raffinato compositore e un uomo sensibile e umile, cosa assai rara nel mondo della musica. Stiamo parlando di Pat Metheny, 59 anni, virtuoso delle sei corde con alle spalle 40 anni di straordinaria carriera. Ha iniziato giovanissimo nella band del vibrafonista Gary Burton, poi si è iscritto al prestigioso college Berkley a Boston. Dopo pochi mesi, grazie al suo innato talento musicale è passato all’insegnamento. Nel 1975 debutta con l’album “Bright size life” con il giovane talento del basso Jaco Pastorius. Nel 1976 al festival jazz di Wichita (Usa) conosce il pianista Lyle Mays. Tra i due musicisti nasce una profonda amicizia e un intenso sodalizio artistico. Nel 1977 i due fondano il Pat Metheny Group con Danny Gottlieb alla batteria e Mark Egan al basso. Girano in lungo e in largo gli Stati Uniti per farsi conoscere dal grande pubblico del jazz. Nel 1978 pubblica il primo album del Metheny Group che riscuote un notevole successo in patria. Il 1979 è l’anno del grande successo di vendite con l’album “American Garage”. La sua fama pian piano giunge anche in Europa. La critica musicale si accorge di questo grande talento della chitarra che suona senza mai stancarsi nei concerti. Pat Metheny colpisce per la sua tecnica strabiliante e per il suono estremamente pulito, cristallino. Anche nei fraseggi più virtuosistici è sempre melodico. Quando suona la chitarra acustica emerge il lato più romantico del suo bagaglio tecnico. Nei suoi delicati arpeggi c’è tutto l’universo del folk americano, un patrimonio musicale immenso. Dopo una serie di dischi jazz come “80-81” e folk come “New Chatauqua”, nel 1981 registra “Offramp”, il disco della svolta sonora che è tutt’ora considerato il capolavoro creativo del Pat Metheny Group. 
Il disco scalò rapidamente le classifiche jazz americane e vinse due Grammy più il premio per il miglior disco jazz del 1982. Da “Offramp” in poi la carriera di Metheny sarà sempre in crescendo, conquistando consensi sempre più ampi, senza smettere però di rinnovarsi e dedicarsi alla ricerca di nuovi linguaggi musicali.
"Offramp" è il 4° lavoro frutto della collaborazione con la band, (con Lyle Mays in primis, Rodby e Gottlieb) e si compone di 7 brani, per una durata massima dei vecchi classici 45 minuti, di dolcezza e virtuosismo.
Il cd si apre con una sorta di urlo, un brano tirato con un ritmo quasi ossessivo e cadenzato su cui una chitarra si lamenta arrivando a colpire al cuore l’ascoltatore, ma con delicatezza e introspezione, lasciandoci sospesi e galleggianti come una "barcarola"... ma per poco perché l'attacco del brano successivo, il migliore del cd "Are you going  with me?", è come una scrollata, una scossa improvvisa col suo intro quieto e la successiva apertura a metà brano scandita  dall'ingresso della chitarra e dei suoi effetti. Un brano di una bellezza struggente e un po' retrò, con quella finta sordina fatta al synth...
E poi "Au lait", brano che non potrebbe avere titolo più indicato... una carezza... obbligatorio chiudere gli occhi.
Quindi l'episodio Jazz in piena regola di "Eighteen", e di "James", con vari virtuosismi chitarra-piano-percussioni, e la splendida chiusura di "The Bat", brano etereo d'atmosfera.
E per ultima la title track, che sembra discostarsi talmente dal resto del cd da sembrare quasi un brano preso altrove: "Offramp", fin dall’inizio lascia intendere che non si tratta di una melodia con una struttura ben precisa e canonica, ma sembra pura improvvisazione e virtuosismo, tecnicamente ineccepibile ma dall'ascolto ostico.
The Bat
James

Il termine fusion sta abbastanza stretto alla concezione musicale di Pat Metheny. Il chitarrista ha sempre cercato di fondere l’improvvisazione jazzistica e l’orchestrazione della musica classica. Per “Offramp” il suo obiettivo è quello di coniugare i due linguaggi citati con la musica brasiliana e l’uso di nuovi strumenti elettronici come la chitarra sintetizzatore e il sinclavier.
Per questo album arrivano due nuovi strumentisti: il contrabbassista e direttore d’orchestra Steve Rodby e il percussionista brasiliano Nana Vasconcelos. Il disco viene registrato negli studi di registrazione Power Station di New York, nell’ottobre del 1981. Le composizioni sono incise praticamente dal vivo, soltanto alcune parti di tastiere elettroniche vengono sovraincise. Nonostante la complessità dei brani si percepisce l’immediatezza e la presa diretta del suono live. Il brano di apertura, “Barcarole” ha una base ritmica etnica su cui Metheny suona per la prima volta la chitarra synth Roland che ha un suono simile alla tromba. All’epoca era uno strumento rivoluzionario di grande effetto. Altri chitarristi che hanno usato questo strumento sono Robert Fripp, Allan Holdsworth e John McLaughlin. Poi è la volta di una delle composizioni più note e amate di Metheny, ovvero “Are you going with me?”. “Offramp” è una sorta di omaggio al free-jazz di Ornette Coleman, uno dei punti di riferimento del chitarrista di Lee’s Summit. Poi spiccano “James”, gustoso omaggio ad un altro amato musicista, James Taylor e l’intensa e struggente “The Bat”, con i sintetizzatori di Lyle Mays in grande evidenza. 
Offramp resta un cd storico nella produzione di Metheny, pulito, perfetto, emozionale.


James 



RETURN TO FOREVER

Copertina RETURN TO FOREVER

Bazzicando tra il jazz, il catalogo ECM e i suoi immediati dintorni è praticamente impossibile non imbattersi in Armando Anthony Corea, detto "Chick". Ma sarebbe meglio dire in uno dei tanti Chick Corea esistenti: dal jazzista ortodosso ma già un po' latineggiante degli esordi a quello già aperto verso il rock del fondamentale "Bitches Brew" di Miles Davis, dal compositore colto e quasi classico delle "Piano Improvisations" al funambolo delle tastiere che ha rivestito di suoni cristallini il soul-funky un po' freddino ma tecnicamente impeccabile della Elektric Band. Ecco, la costante è proprio questa, la tecnica assolutamente sempre all'altezza, qualunque sia il genere in cui si è cimentato questo versatilissimo pianista. Magari un Keith Jarrett si fa preferire nelle improvvisazioni per pianoforte solo, magari un Joe Zawinul si impone come virtuoso delle tastiere elettroniche che illuminano e colorano le forti basi ritmiche della "fusion", ma per trovare uno che in entrambi i campi (e in altri ancora) abbia raggiunto livelli di eccellenza, bisogna rivolgersi a Chick Corea.
Una delle sue fasi più originali e personali è certamente quella "latina" dei primi anni '70, che ha in questo affascinante "Return To Forever" il suo prodotto più famoso, se non proprio il migliore. Il titolo è anche il nome della formazione che accompagna il pianista: il fido Joe Farrell a fare l'Eric Dolphy della situazione, diviso tra flauto e sax soprano, Stan Clarke al basso (e contrabbasso), Airto Moreira tra batteria e percussioni, e la cantante Flora Purim a spargere su tutto i suoi vocalizzi angelici. Come si vede, una formazione mista, in parte latinoamericana, e particolare, priva tra l'altro di un chitarrista. Molto particolare è anche il piano elettrico usato da Chick Corea in questo frangenteche permette vengano fuori una collana di note così limpide e risonanti da sembrare a tratti uscite da un vibrafono. Se poi a queste dolci note si uniscono i voli felpati di un flauto libero di svariare, un placido basso che sta quasi sempre sulle sue, percussioni secche e metalliche, ma sempre contenute entro il limite del rumore, e un canto soave piuttosto che acuto, si può capire che in questo disco tutto è smussato, privo di angolosità.
Crystal silence
Per certi versi siamo più vicini alla "ambient music" che al jazz, il che sembra in contraddizione con i ritmi latini, che certamente sono protagonisti, ma mai a livello di chiassoso Carnevale. Piuttosto c'è una sublimazione della spiritualità contenuta in questi ritmi, non molto dissimile da quella esaltata anche da Carlos Santana in "Caravanserai". Se si esclude "What Game Shall We Play Today", che potrebbe passare tranquillamente per un classico brasiliano di Antonio Carlos Jobim, con Flora Purim nella parte di Astrud Gilberto, il resto del disco è costruito prevalentemente in forma di lunghe suites. Come la bellissima "Return To Forever", con la sua introduzione ipnotica, in cui piano, flauto e voce hanno un ruolo fondamentale, che riescono a mantenere anche quando irrompono ritmi decisamente latini. O come "Sometimes Ago - La Fiesta", con una lunga preparazione che vede il basso in evidenza per la prima e unica volta, seguita dal lento sorgere di un tema ("Sometimes Ago") tratto da una delle classiche improvvisazioni per piano di un Chick Corea di soli due anni prima, eppure totalmente diverso. "La Fiesta" conclude questo lunghissimo brano in un clima trionfale (come da titolo) ma mai tale da offuscare le splendide melodie esposte all'inizio. Fa specie a sé, ma come un prezioso esemplare di minerale raro, "Crystal Silence".  Qui si tocca l'apice della delicatezza e dell'eleganza, grazie al magico motivo esposto dal sax soprano in uno scintillio di piano elettrico e percussioni cha fa da sfondo vitreo. Sembra musica suonata sott'acqua, che arriva in superficie sotto forma di lievi increspature. Ma ciò vale anche per le molte languide pause che spezzano il ritmo dei brani più mossi, facendo di "Return To Forever" un disco da ascoltare da cima a fondo ad occhi chiusi, sognando. 

Return to forever



TABULA RASA
Copertina TABULA RASA


Un'opera d'arte è tanto più grande quanto meglio riesce ad esprimere ciò che il suo autore ha dentro, e a volte riesce ad esprimere molto di più. Non importa quindi lo strumento che si usa per fare arte, né come ci si arriva, l'importante è il fine raggiunto. Un'opera d'arte può essere anche brutta, può non corrispondere al proprio umore e alle proprie attitudini, questo è indipendente dalla sua grandezza, per questo si può fare una canzone anche con rumori o monumenti con rifiuti.
La grandezza di Arvo Pärt sta nel fatto che le parole chiave della sua musica sono "semplicità", "silenzio", "bellezza", "profondità". Riesce, come spesso i più grandi artisti, ad emozionare profondamente con sobrietà e umiltà.
Arvo Pärt chiama il suo stile tintinnabuli e dice a riguardo:
"I tintinnabuli sono una zona in cui a volte vago quando sto cercando delle risposte -sulla mia vita, sulla mia musica, sul mio lavoro. Nelle mie ore buie, ho la certa sensazione che ogni cosa al di fuori di questa unica cosa non ha significato. La complessità e la multi-sfaccettatura mi confondono solamente, e devo ricercare l'unità. Ma cos'è questa unica cosa? E come posso trovare la mia strada verso di essa? Tracce di questa cosa perfetta appaiono in molte sembianze -ed ogni cosa che non è importante scivola via. Tintinnabuli è così. Eccomi solo col silenzio. Ho scoperto che è abbastanza quando anche una sola nota è magnificamente suonata. Questa unica nota, o un battito calmo, o un momento di silenzio, mi confortano. Lavoro con pochissimi elementi -una voce, due voci. Costruisco con i materiali più primitivi -con l'accordo perfetto, con una specifica tonalità. Tre note di un accordo sono come campane ed è perciò che chiamo questo tintinnabuli".

Arvo Pärt nasce l'11 settembre 1935 a Paide in Estonia senza avere un preciso insegnamento religioso. Diventa allievo di Heino Eller al conservatorio di Tallin. Vivendo durante il regime sovietico ha pochi contatti con le avanguardie musicali europee e americane. Verso i trent'anni entra in contatto con la scuola di Darmstadt. Da qui diventa grande amico di Luigi Nono. Pärt diventa il primo compositore estone a sperimentare e diffondere le tecniche seriali nel suo paese insieme con la dodecafonia. Ma in breve non soddisfatto da queste tecniche, si rende conto che l'atonalità non era lo strumento giusto per esprimere le sue esigenze musicali. Si dedica quindi agli studi sul canto gregoriano e sulla musica barocca, Bach diventa la sua passione e il suo mito insuperato. Dopo un periodo di crisi creativa iniziato verso la fine degli anni '60, matura quella che è la sua idea di tintinnabuli e musica sacra.
"Questo è il mio obiettivo. Il tempo e il senza-tempo sono connessi. Questo istante e l'eternità stanno lottando fra di noi. E questa è la causa di tutte le nostre contraddizioni, la nostra ostinazione, la nostra mentalità limitata, la nostra fede e la nostra angoscia".
Arvo Pärt è uno dei pochi e più grandi compositori di musica sacra del ‘900, quella sacralità immersa nel materiale e aggiornata nel secolo in cui Dio è morto e dove l'artista esprime il bisogno dell'uomo "moderno" di una spiritualità profonda, e la sua personale constatazione dell'esistenza di un Dio, in un clima culturale relativista che in quanto tale non può permettersi di negarlo. I suoi lavori sono "opere della sofferenza", quella sofferenza vera e profonda rappresentata dal sacrificio di Cristo per l'umanità, che non può quindi essere ricreata artificialmente, ma che ognuno può trovare dentro di sé quando si trova a dover "portare la croce".
"Non sarebbe stato difficile per gli apostoli aver vissuto nell'Unione Sovietica. E lì ci sono persone meravigliose come loro. L'eroismo può fiorire in quel clima. Ma non è assolutamente necessario per le persone vivere sotto tali condizioni. Forse [la sofferenza] è più importante per qualcosa che avviene dentro di noi, al di fuori del nostro stesso libero arbitrio. Ciò fa differenza nel modo in cui si pensa se uno sia affamato o sazio. Dovremmo diventare tutti affamati per quella ragione? Esiste per noi un livello più alto dell'essere affamati o sazi. Non dovremmo permettere a noi stessi di affondare in queste due alternative estreme".
Arvo Part
Dopo il periodo di crisi, nel '77 l'autore risorge con nuove composizioni: "Tabula Rasa", "Fratres" in due versioni, e "Cantus In Memoriam of Benjamin Britten". Questi brani furono pubblicati dall'etichetta ECM nel 1984 nell'album "Tabula Rasa" con musicisti illustri: Gidon Kremer al violino, Keith Jarret al piano, Tatjana Grindenko ancora al violino e Alfred Schnittke al piano preparato; con la partecipazione inoltre di varie orchestre. Questi brani sono emblematici dello stile di Pärt, è una musica che viene dal paradiso, che richiama il passato ma che trasporta verso qualcosa di mai sentito prima. E' quella musica semplice e ascetica come un eremita, fatta di pochi elementi ma capace di prendere al cuore, di segnare profondamente l'ascoltatore regalandogli un'esperienza profonda e impossibile da dimenticare, è sicuramente una musica che può cambiare.
Queste composizioni rimangono a mio avviso tra le più alte opere d'arte del secolo scorso, di cui mi risulta veramente difficile parlarne essendo troppo riduttiva e incompleta qualsiasi cosa riesca a dire. Non posso che invitarne all'ascolto essendo un dialogo intimo con sé stessi.
Riguardo al brano "Tabula Rasa", Pärt dice: "Sono sempre impaurito dalle nuove idee', dissi a Gidon. ‘Pensi che debba essere un pezzo lento?', Gidon disse:'Sì, certamente!'. E il pezzo fu terminato piuttosto velocemente. L'orchestrazione richiama un pezzo di Alfred Schnittke che stava per essere eseguito nello stesso periodo a Tallin. È musica per due violini, piano preparato e archi. Quando i musicisti videro il risultato gridarono:'Dov'è la musica?'. Ma finirono per suonarla molto bene. Fu molto bello. Fu tranquillo e bello".

Tabula rasa



HOLON
Copertina HOLON

 È difficile da definire la musica di Nik Bartsch e della sua formazione Ronin, nome ispirato ai solitari samurai della tradizione giapponese. Zen Funk è indicativamente una definizione presente sul sito del pianista svizzero, che ha creato questo gruppo nel 2001 e che si accompagna al clarinettista-sassofonista Sha, al bassista Bjorn Meyer, al batterista Kaspar Rast ed al percussionista Andy Pupato. L’originalità del progetto è indubbia e si palesa immediatamente attraverso un minimalismo compositivo ed esecutivo inserito nell’alveo di una musica scarna, moderna, apparentemente fredda ma molto avvolgente, che cattura ed ipnotizza sin dalle prime note di questo Holon, il quale fa seguito ad altri indefinibili e comunque (o proprio per questo) già apprezzati progetti di Nik Bartsch. Se dovessi dare un riferimento all’ascoltatore ignaro sarei in difficoltà ma oserei ricordare i grandi Soul Coughin dei loro (purtroppo) pochi dischi, escludendo l’apporto fondamentale della voce ed immaginando un prospetto musicale ancora più semplice, naturale e dilatato, meno rock e più jazz-orientato. Non ci sono in realtà solisti in questa musica, i suoni sono ben distinti e compenetrati e tendono a reiterare i motivi conduttori con impercettibili variazioni che portano sorprendentemente poi da un’altra parte.

 Il piano del leader si concede brevi fughe classicheggianti o sperimentali, mentre i fiati di Sha si inseriscono piuttosto nel gustoso e ricco magma ritmico che rappresenta la materia sonora pulsante su cui si muove il tutto, frutto di una straordinaria sensibilità negli altri componenti del gruppo, tutti votati a un’eccellente sintonia per una musica ipnotica e perfettamente preparata. Ci si immerge in un universo davvero speciale che, come invita a fare Bartsch nelle note di copertina, punta ad aprire le orecchie di chi ascolta, orecchie tarpate da troppi suoni inutili e talvolta salvate o riportate sulla retta via da musica innovativa come questa.La seconda ondata di minimalisti formata dai musicisti nati intorno agli anni sessanta, si è manifestata in forme diverse da quella dei progenitori: si è assistito ad un naturale riequilibrio tra generi, all'inserimento di nuovi elementi nelle forme più tradizionali, sono cominciati quegli incroci che hanno costituito naturale evoluzione di quello stile d'avanguardia; se nel continente americano i compositori hanno pensato ad irrobustirlo o a fonderlo con la musica ambientale, in Europa la tendenza è stata quella di miscelarlo nella tradizione classica; tuttavia le istanze progressiste non sono solo arrivate da compositori che operavano nella musica colta, ma anche da musicisti con preparazione jazzistica. E' il caso dei due gruppi che rappresentano probabilmente le più lungimiranti espressioni che il jazz abbia riscontrato in questi ultimi vent'anni assieme all'altrettanto valido movimento del nu-jazz, movimenti non perfettamente valutati dalla stampa, anche quella accreditata.
Modul 33

Il pianista svizzero Nik Bartsch e il suo ensemble Ronin costituiscono una delle frange più evolute del sound della ECM Records. Qualche tempo fa, leggendo una recensione di un suo disco, l’autore inglese lo definì come un musicista compendio di musica classica verso funk; la realtà invero è dibattuta perché Bartsch viene costantemente inserito nel settore jazz, pur avendo un background musicale molto più nutrito: il suo pianismo è minimale (nel senso della ripetizione di gruppi di note), è costruito in moduli (tutti i brani vengono presentati ed intitolati con la sigla Modul + numero) nel rispetto di una programmazione per gradi della costruzione sonora che potrebbe avere il dono della interscambiabilità; gran parte dell’affascinante e misterioso sound che ne fuoriesce è supportato da un basso ed una batteria realmente funk (nel suo ultimo cd vi è anche l’apporto di un sax che segue in maniera costante il programma musicale); sprazzi di queste combinazioni di suoni modulari risentono di controtempi jazzistici, ma in realtà l’improvvisazione (almeno quella canonica) è quasi totalmente assente o meglio è imbottigliata nei "moduli". Comunque sia, prima di lui, un altro gruppo giù utilizzava lo stesso metodo di composizione: sono gli australiani The Necks composti da Chris Abrahams (piano), Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (contrabbasso), che seppur con variabili musicali diverse, specie nella lunghezza dei brani e nelle interazioni con gli altri strumentisti (la batteria non è funk e il basso elettrico è sostituito da un contrabbasso), condividevano con i Ronin lo stesso risultato: molti critici ritengono che questo eclettico maquillage che attinge agli umori dei generi musicali principali prendendone alla fine solo la radice e che sostituisce al virtuosismo costruito sulla variabilità delle note del pentagramma, un virtuosismo basato sulla intensa ripetibilità di un patterns di note musicali, sia una delle strade future della musica e non si può negare che questo atteggiamento musicale sia anche “emotivamente” accattivante.
I Necks possono considerarsi un gruppo a se stante con una discografia già cospicua che può e deve essere letta globalmente: già l'esordio con "Sex" stabilisce le loro coordinate musicali: brani lunghissimi intorno all'ora di musica, un "ipnotico" senso della ripetizione, un chiaro spirito jazz dedito ad una improvvisazione di altro genere; difficile indicare quali siano le migliori prove di fronte a tanta omogeneità stilistica; direi che i Necks dei novanta si distinguevano per un influsso prevalente di jazz all'interno delle loro suites, e sono anche quelli più "normali"; quelli più progressivi hanno come portabandiera "Hanging Gardens", quelli più ambientali si trovano in "Aether", quelli più sperimentali si trovano in "See me through", quelli divisi tra tendenza classicista e umori etnici orientaleggianti in "Townswille": ognuno può scegliersi il suo disco di riferimento!
Bartsch  si è presentato ad Umbria Jazz nell’ambito di un nuovo spazio dedicato a Eicher e ai suoi musicisti, e sembra si sia fatto notare per avere un’opinione piuttosto lungimirante nel giudizio della musica contemporanea. “Llyria” (ECM 2010) prende il nome dalla recente scoperta di un essere marino sui fondali e vuol dare probabilmente proprio l’impressione di un caratteristico ascolto da “ricerca”; ormai l’artista è pienamente cosciente di aver creato un suo sound e in quest’episodio il tentativo è quello di approfondirne i contenuti.
Anche "Silverwater", ultimo lavoro dei Necks da annoverare tra i loro migliori, si arrichisce di ulteriori contributi strumentali come spiega Jon Lusk su BBC Review del 4/12/2009, ....ma "Silverwater" ha una maggiore varietà di suoni -molto belli e intriganti, altri più inquietanti - rispetto alla maggior parte delle loro creazioni. Ci sono gongs sontuosi, un organo vagante, nervosa elettronica suonata in low-fi, ondate di chitarre elettriche in stile ambientale, il tintinnio del suono dell'anklung (un sonaglio sintetico di bambù usato nella musica tradizionale indonesiana) e anche qualche fischio. (mia traduzione), con risultato quello di accrescere lo stato di "sospensione" della composizione così come descrive Scaruffi nella sua recensione: ...il loro metodo ipnotico rivela finalmente uno scopo metafisico, anche se il senso ultimo dei loro cerimoniali infiniti rimane ancora criptato.....(mia traduzione).
La mia sensazione è che siamo di fronte a quelle forme d'arte che non vengono adeguatamente comprese nel tempo in cui si realizzano ma che diventano le basi di partenza per i movimenti musicali del domani. 

Modul 39_8




REMEMBRANCE

Copertina REMEMBRANCE

Ketil Bjornstad non è solo un musicista e compositore jazz di estrazione classica, ma anche un valente scrittore di temi contemporanei. L'attaccamento a questa forma di arte pervade anche il profilo musicale, tant'è che l'artista nel corso della sua carriera compone spesso su testi di poeti da lui ammirati (John Donne, Edvard Munch, Edith Sodergran, ecc.). La sua originalità prende piede forse proprio da questo connubio, perchè nei momenti migliori e più ispirati ha saputo trarre linfa vitale per trasferire in maniera eccezionale quei sentimenti profondi che erano dentro di lui. Ragazzo prodigio (a sedici anni suonava il concerto n. 3 di Bartok), Bjornstad si caratterizza più per gli effetti che riesce a produrre e meno che per il suo virtuosismo, che viene tenuto sacrificato per fare emergere timbri e dinamiche, alla ricerca di uno spazio musicale in cui sia possibile far confluire pause, silenzi e note musicali: un pianista da "preludi" e "fughe che ha cavalcato questi ultimi cinquant'anni di musica cercando di precostituirsi un proprio ambito (come pianista si può considerare una via di mezzo tra barocco, classicismo, impressionismo e le istanze "nordiche" moderne), sempre alla ricerca dell'emotività delle cose, con un particolare interesse alla contemplazione dell'acqua intesa in senso ampio (molti suoi albums verrano intitolati tenendo presente questo riferimento).

La sua carriera discografica si apre alla Philips nel 1973 con il suo primo album "Apning" che ci presenta un pianista con una sua personalità ma con riferimenti chiari al sound pianistico ritmico del pianista di eccellenza di quel momento, ossia il Keith Jarrett di "Facing you" o di "Fort Yawuh" tanto per intederci, e l'esperimento in gruppo a cui partecipa già il bassista Arild Andersen e il batterista Jon Christensen, viene ripetuto in "Berget det bla" l'anno dopo. Il Bjornstad di questi anni è spensierato, fornisce all'ascoltatore delle "good vibrations" ma tutto sommato non ha ancora quel "quid" che caratterizza un campione da un suonatore ottimo: pubblica il suo primo disco solista al piano nel 75 "Tredje Dag" che sarà bissato nel 1979 dal più compiuto "Svart Piano". "Finnes du noensteds ikveld" (1976) e il successivo "Selenia" presentano per la prima volta un sax e spostano l'attenzione dell'artista su un più marcato senso "nordico": in molti momenti sembra essere in un disco del Garbarek anni settanta, ma l'attività musicale del compositore svedese viene riconosciuta dal grande pubblico solo con la sua prima rockopera "Leve Patagonia" (1978), che cerca di presentare in modo originale una fusione tra rock, pop di matrice tradizionale (usando anche il canto lirico in lingua) e intermezzi classici; Bjornstad ripeterà spesso negli anni successivi quest'esperienza con "Aniara" (dove fa uso anche di toni newage), "Natten" (1985), "The Shadow" (1990). Si nota comunque una certa dispersione del musicista che forse in quel momento è alla ricerca di popolarità: lo dimostrano le incursioni "fusion" di "Tidevann (1980) e nella newage di "Engler I snefen" (1982), che calcano le mode ma si presentano in una veste di "cantabilità" un pò scontata. "Karen Mowait Suite" (1988) invece lo presenta ormai immerso nell'elettronica ambientale con tocchi new age. "Odissey" del 1991, ritorna ad un pianismo più puro con uno spirito molto vicino agli esordi, ma quando il piano non è protagonista, restano evidenti brani con minor spessore. 

 A questo punto l'artista entra nella ECM: l'incontro con il cellista David Darling e con il chitarrista Terje Rypdal gli fanno fare quel salto di qualità che ancora gli mancava: gli album "acquatici" ("Water stories" (93), The Sea I ('95), The river (96) e The Sea II ('98) lo riportano alla ribalta internazionale: quegli aspetti "nostalgici" o "vissuti" della sua discografia vengono enfatizzati con l'intelligente ausilio di grandi musicisti partners e danno alla musica una sua originalità e profondità che ristabilisce in grande l'equilibrio tra la preparazione classica del musicista e l'applicazione dei teoremi nordici nel jazz. "Water Stories" può essere considerato un vero e proprio documentario sulle evoluzioni del mare, in un rapporto evocativo perfetto tra musica ed subdole immagini; "The sea I" scava ancora più a fondo nell'immaginario rappresentando il lato più cangiante ed umorale del mare, in simbiosi con i cambiamenti umani; "The river", da solo con David Darling, viene pubblicato dopo che Bjornstad ha passato un'intero inverno ad ascoltare la musica rinascimentale di William Byrd e Orlando Gibbons, è necessariamente più austero ed introverso, ma possiede una tensione (grazie ad un mirabile interplay fra i due musicisti) tale da farlo passare per un testamento spirituale; "The sea II" riprende il discorso di "The river" con una presenza musicale più forte dettata dall'inserimento "pennellato" della batteria di Christensen e dei meravigliosi ed espressivi "contorcimenti" chitarristici di Rypdal.
Di questo periodo concomitante è anche la proposizione di componimenti "classici" che vengono misurati sui due volumi di "Preludes" (originariamente pubblicati nel 1984-1985) e sui due volumi delle "Rosenborg Tapes" dove Bjornstad accanto alle sue composizioni rilegge sotto forma di variazioni i preludi e fughe di Bach (1998-1999).

Ad inizio decennio ancora un disco un pò più debole con David Darling "Epigraphs" (2000), un tuffo nella moda del "nu jazz" e della modernità imperante in Scandinavia (l'artista suona assieme all'Ensemble 96 gruppo corale norvegese e ad altri artisti in cui spicca il trombettista Palle Mikkelborg) in "Old" (2001), e in "Before the night" (2002) , che si divide tra elettronica, spazi neoclassici, e aperture chitarristiche (Eivind Aarset) e poi tutta una serie di albums in cui Bjornstad sviluppa il suo pianismo "poetico" in chiaroscuro, con una particolare e già sperimentata affezione alla musica pop/rock con intense voci al canto (Anneli Drecker e Bendink Hofset, Christine Asbjornsen): vengono pubblicati "Grace" (2000), "The nest" (2003), "Seafarer's song" (2004), che potrebbe diventare un disco-manifesto dell'emigrazione contemporanea, e il delicato ritorno ECM Records "The light: songs of love and fear" (2008) strutturato come "songs cycle" in lingua nordica, cantante da Randi Stene.

Gli ultimi episodi discografici lo vedono intraprendere una forma più tradizionale di jazz: "Floating" nel 2006 (con P. Danielsson/M. Mazur) e "Devotions" (2007) sono albums in trio (con l'aggiunta in Devotions di flauto), che forse per la prima volta mettono a nudo una nuova personalità jazzistica protesa verso le radici delle soluzioni in trio alla Bill Evans, alla ricerca di una rinnovata purezza dei suoni. "Remembrance" prosegue in questa linea e accanto alla batteria di Christensen, ritorna in maniera preponderante il sax, questa volta suonato da uno dei nuovi talenti svedesi, Tore Brumborg.
Colori e suoni olografici dove la tradizione pianistica euro-colta viene passata col chinoise dell'improvvisazione, estratta dal nord europa. Remembrance è un lavoro d'intimo aspetto, carico di lirismo, intriso di calma, relaxing audiotattile, ben annotato nei tasti di Ketil Bjornstad e più libero nelle originali costruzioni dinamiche di Jon Christensen. Nel palpabile interplay tra il leader ed il batterista, costruito su di un rapporto di lunga durata, si inserisce Tore Brunborg, sassofonista anch'egli norvegese che pone particolare attenzione ai timbri ed i colori, prescindendo da qualsiasi virtuosismo, peraltro inutile in questo contesto sonoro.
Undici "ricordi" tutti autografati da Bjornstad, avvolti in un manto di velluto comune che mettono in evidenza l'estrazione classica del cinquantottenne pianista di Oslo, con passaggi lisztiani e billevansiani. Le prime cinque tracce hanno una marcia monocorde, troppo legate agli stilemi classici e timorose di infrangerne le regole. Una svolta armonica la si percepisce dalla sesta in poi, soprattutto con i dialoghi tra batteria e pianoforte, con Christensen che svolge un lavoro estremamente vario sul timbro, quasi percussivo ed asimmetrico.
Un disco contemplativo secondo lo stile di Bjornstad e di marca ECM, e che rispecchia l'intimismo nordico più retrò.
Michael G. Nastos afferma che: "Remembrance certamente è una riflessione, la registrazione introspettiva, adatto per quei tempi, quando è necessario fare una pausa di preoccupazione e uno sguardo al proprio sè interiore".



Remembrance






A conclusione di questo percorso ritengo sia fondamentale sottolineare quello che è stato l’incipit di questo blog: “ECM e le coraggiose scelte di  MANFRED EICHER”.
Cercate, ascoltate, ripercorrete questa “strada” apertasi nel 1969 e troverete un uomo che ha scelto la Musica, e che da questa ha ottenuto il resto.
Un personaggio che non ha avuto paura di osare, di scegliere e di sorprendere, di andare al di là di ciò che tutti si aspettavano; e la cosa straordinaria è il fatto che lo faccia ancora oggi.
Se cercate qualcuno che svolge il mestiere di produttore,  ma che in realtà è un “ascoltatore che distribuisce musica”, troverete Manfred Eicher.


giovedì 2 giugno 2016

The Koln Concert e il solismo di Keith Jarrett




"Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a suonare. E' come partire da zero. [...]
Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare di accrescerla, lasciarla essere" 
(K. Jarrett).
L’arte dell’improvvisazione ha origini antiche, remote; molto probabilmente è la forma primordiale di musica, la più slegata da strutture archetipe che, accumulatesi nel corso dell’evoluzione della civiltà, hanno progressivamente irreggimentato quest’arte secolare.
"Solo nell'improvvisazione l'ascoltatore ha la possibilità di avere un reale contatto con il musicista, senza la normale distanza che esiste in altri tipi di esecuzione. Ogni nota non è scritta su uno spartito è non è stata neanche prevista prima. Ogni nota è nel presente ed è viva". (Keith Jarrett)

Chiariamo infatti e da subito un punto essenziale: per valutare Jarrett e la sua musica il critico, il musicologo, sia esso di estrazione accademica o jazzistica, ma anche il semplice ascoltatore appassionato, deve sforzarsi di operare cercando di abbandonare qualsiasi genere di pregiudizio o schema precostituito e storicamente consolidato in fatto di musica, da qualsiasi direzione culturale egli provenga, mettendosi in prima persona in discussione e al servizio della musica. In altre parole, occorre per un attimo saper dimenticare non solo le proprie preferenze musicali, ma anche rinunciare a voler inquadrare forzatamente la sua opera in un preciso ambito stilistico: il jazz, piuttosto che la musica accademica, la new age piuttosto che la world music, per fare solo degli esempi. Tutto questo pur potendo tranquillamente rintracciare tali elementi esplicati al meglio nella sua musica. Altrimenti si va incontro ad un maldestro approccio che porta e ha già portato inevitabilmente ad utilizzare criteri di valutazione impropri e a delle distorsioni critiche. Non a caso musicologi ed esperti di chiara fama, come Piero Rattalino e Marcello Piras, pur provenendo da campi musicologici agli antipodi tra loro (l’uno accademico, l’altro prettamente jazzistico), sono incorsi entrambi in giudizi critici sul Nostro che letti oggi risultano essere chiare bucce di banana su cui sono involontariamente scivolati. Ma non sono i soli, visto che altri, specie nell’ambiente jazzistico, hanno dovuto cambiare giudizio critico in corsa, in particolare dopo l’avvento dello Standards Trio, da considerarsi comunque l’esperienza più matura e, forse, il contributo più rilevante del pianista in ambito strettamente jazzistico.
Sarebbe tuttavia erroneo valutare l’opera di Jarrett, specie quella pianistica, sotto la ristretta ottica della musica afro-americana. Il fatto è che raramente un musicista ha saputo essere interprete del suo tempo come Jarrett. Un’epoca in cui lo scambio culturale interplanetario, sospinto anche dall’enorme sviluppo dei mezzi di trasporto e telecomunicazione ha permesso un sempre più rapido contatto tra genti e culture assai diverse tra loro, favorendo un processo di “contaminazione” e di “globalizzazione” anche in campo artistico e musicale; un processo che potremmo schematicamente definire come “cosmopolitismo musicale” e rintracciare, a mo’ di splendido esempio, nella sintesi artistica del Nostro.


La sera del 24 gennaio del 1975, qualcosa di magico accadde all’Opera Haus di Colonia.
 
Opera Haus Colonia

 Keith Jarrett, pianista sulla breccia da una decina d’anni scarsi, cresciuto alla corte dei Jazz Messengers di Blakey, di Charles Lloyd e di Miles Davis, da qualche anno aveva avviato una fortunata collaborazione con il produttore discografico tedesco Manfred Eicher. Nel 1973 egli aveva inaugurato una serie di concerti (Brema e Losanna) durante i quali egli affrontava il pianoforte completamente alla cieca, senza l’ausilio di alcun supporto, in una sorta di improvvisazione totale che faceva leva non solo sulla sua esperienza nel jazz ma anche sulla sua solidissima preparazione classica (cominciò a suonare all’età di tre anni, a sette componeva già e fu allievo della Berklee School of Music).
Quella sera, Jarrett aveva chiesto che sul palco fosse portato uno Steinway, il suo pianoforte preferito, quello sul quale aveva per anni coltivato l’arte dell’improvvisazione. Qualcosa non andò nel verso giusto e lo Steinway non arrivò mai; sebbene molti dell’organizzazione cominciassero a tremare (Jarrett diventerà tristemente famoso anche per le sue sortite da primadonna), il pianista aveva chiesto che in sostituzione fosse portato uno dei due Bösendorfer che erano dietro le quinte, dopo averli provati. Ma quella sera era nata per essere speciale e, colmo di sfortuna, per un disguido, sul palco fu invece portato l’altro Bösendorfer. Tutti, Eicher compreso, erano a un passo dal gettare la spugna; ma non Jarrett che intravide in quella avversità uno stimolo in più per poter fare qualcosa di eccezionale.
Con molto ritardo, il concerto ebbe inizio.
"La cosa più importante in un mio concerto è la prima nota o le prime quattro note. Se hanno sufficiente tensione, il resto del concerto viene da sè, quasi naturalmente [...] bisogna solo raggiungere il nucleo della musica e poi questa suona da sola".
Ascoltate le prime cinque note del concerto. Più che tese sono sospese, come in levitazione. Poi il resto va da sé.


Le prime note del Koln Concert
"Se si è un improvvisatore, un vero improvvisatore, si deve avere familiarità con l'estasi (io direi "l'ispirazione", n.d.r.), altrimenti non si entra in contatto con la musica. Quando si compone si aspetta che questi attimi particolari giungano (appunto, l'ispirazione n.d.r.), in qualsiasi momento questo accada. Può anche darsi che oggi non arrivino. Ma quando s'improvvisa, alle otto di stasera per esempio, è necessario avere una tale familiarità con questo stato da poterlo raggiungere comunque".  (Keith Jarrett)

Il Köln Concert, registrato all’inizio del 1975, rappresenterà in breve e un po’ inaspettatamente per Jarrett, il vertice del suo successo discografico, il raggiungimento di una fama e una popolarità che riuscirà ad andare oltre il normale target di appassionati cui fino a quel momento si era rivolto e inevitabilmente darà una conseguente svolta alla sua carriera artistica e professionale. Eppure, guardando quel concerto a distanza di tempo, alla luce degli eventi successivi e con il necessario distacco, si deve paradossalmente considerare un caso a se stante nel panorama discografico jarrettiano e, tutto sommato, una delle sue prove musicalmente meno consistenti realizzate in tutta la sua carriera. Si tratta, come è noto dalle sue biografie, di un concerto sostanzialmente anomalo per svariate ragioni personali e negative circostanze organizzative, che tuttavia non impedirono a Jarrett di tirar fuori comunque il meglio compatibilmente con le circostanze. Un’esperienza questa che confermerà al suo autore come spesso la creazione artistica nasca più da situazioni di difficoltà, disarmonia e sofferenza piuttosto che dal benessere psico-fisico e che avrà modo di ripetere non infrequentemente negli anni a venire.
The Koln Concert
Le ragioni del successo senza precedenti di questo disco-concerto sono svariate e sono già state ben analizzate da altri, ma mi sembra siano legate, principalmente, da un lato ad una forma di ritualità nel gesto del suonare, dall’altro all’emozionalità della sua musica, magari esplicata in modo a tratti un po’ epidermico, ma che risulta alla fine essere assai diretta ed estremamente coinvolgente per l’ascoltatore-spettatore, che coglie così la sensazione di assistere e compartecipare ad un evento, piuttosto che ad una semplice ed usuale esibizione musicale.
Quel che è certo è che Jarrett con questo concerto ha avvicinato intere schiere di nuovi adepti non solo nel mondo della sua musica, ma anche indirettamente a quello del jazz e della musica improvvisata americana tout court. Un merito certo non trascurabile, che, in questo, lo accomuna ad un grande maestro-predecessore che aveva recentemente contribuito al suo lancio, il mitico Miles Davis, ma anche ad altre figure musicalmente trasversali e storiche del jazz, come un Louis Armstrong o un Benny Goodman, tanto per citare.
In realtà, certa emozionalità un po’ epidermica, nonostante l’indiscutibile successo del disco, sarà presto abbandonata da Jarrett che dimostrerà, come sempre nella sua carriera, estremo rigore musicale e scarsissima propensione alla concessione commerciale ed all’ammiccamento, cosa che non si potrà certo dire di tanti altri affermati pianisti coevi, come Chick Corea e Herbie Hancock, in fondo jazzisticamente assai meno discussi e curiosamente più accettati dall’establishment jazzistico, nonostante le numerose scivolate nel kitsch più inverecondo.
Le prime note sono di attesa, come se Jarrett e il Bösedorfer fossero due belve che si stessero studiando, occhi negli occhi. Il suono del pianoforte era qualcosa che andava aldilà delle più nere previsioni; sembrava uscire da uno strumento da barrell house (pare che non fosse stato nemmeno revisionato!) e non da un gran coda da concerto. Gli acuti erano al limite dello stridore e i bassi al limite della sordità; davvero, chiunque avrebbe chiuso il coperchio e salutato il pubblico!
I primi minuti sono la reale descrizione di una suspance vissuta in diretta, ma poi Jarrett si getta a capofitto in quest’avventura che, nel bene e nel male, segnerà il panismo jazz e new age dei successivi 20 anni. Un’avventura dalla durata complessiva di circa un’ora; il concerto si compone di 4 parti o, meglio, di due parti e quattro sezioni (part I, part IIa, part IIb, part IId).
Memories of tomorrow
I mugolii di gouldiana memoria, gli accordi multirivoltati e complessi (abbondano le settime sensibili e le none), la mano sinistra intrappolata da pause lunghissime, gli stomp del piede destro sul pedale e quelle lunghissime scale, che alternano i modi maggiore e minore in un flusso velocissimo, ibrido e irrisolto per almeno 15 minuti, contraddistinguono la prima parte (lunga circa 26 minuti), che, dopo una modulazione estremamente complessa, si conclude con una cavalcata gospel (riferimento fondamentale del jazz di Jarrett).
La seconda parte, sezione IIa, ci fa capire subito in quale ambito timbricamente vincolato nacque e si sviluppò l’armonia della performance; Jarrett con la mano sinistra sui bassi non poté far altro che cercare i ritmi più ossessivi (e li trovò!) tra ribattuti velocissimi e salti d’ottava sugli accenti secondari. Un ritmo spasmodico e ossessivo sul quale si avvicendano pezzi sparsi di melodie rag che appena nascono si aggrovigliano attorno alle blue note (il fa bequadro e il do naturale, ma anche il si bemolle) formando un impasse melodico che raramente si riscontra nella discografia jazz (la memoria non può che andare al più grande pianista jazz di sempre, Art Tatum). Il tutto confinato tra il re basso e il do acuto, intervallo che racchiudeva le uniche possibilità espressive di quel Bösendorfer.
La seconda sezione, la IIb, è probabilmente il lascito maggiore a tutta una schiera di pianisti new age che di lì a poco avrebbe invaso il mercato discografico; dopo un inizio tranquillo che presto si rivela ipnotico, di tanto in tanto rotto da piccole volatine verso l’alto come i guizzi improvvisi che turbano le acque stagnanti di qualche palude del sud, il brano si abbandona a una serie lunghissima e sfinente di trilli e tremoli che, attraverso una modulazione intricatissima tanto da far perdere davvero l’orientamento armonico e di tempo (6+3/16, 12+2/16, 5/8, 6+2/8, 7/8, 9/8 i metri ritmici che si susseguono), ci porta dall’iniziale tonalità di La maggiore a quella di Lab maggiore. Su questa tonalità Jarrett chiude il brano con una lunghissima coda che riprende le atmosfere di inizio concerto.
Una piccola pausa e Jarrett, dopo 50 minuti in cui ha praticamente esaurito tutte le possibilità espressive di quello strumento, riconduce l’auditorio nel regno sovrano del jazz. Si tratta di un ritorno “alla casa dei padri” (Powell su tutti, si ricordi la sua Body and Soul), un brano in cui i patterns armonici e cromatici degli standards fungono da sostegno a una mano destra che continua ad avventurarsi in scale e arpeggi mozzafiato, ma estremamente melodici. Il tutto si placa nella morbida coda di Do maggiore, placida come il finale della Fantasia di Schumann.
Eicher e Jarrett, dopo aver riascoltato il nastro decisero che, nonostante tutte le avversità, il materiale registrato era “musicalmente coerente” e, grazie all’ingegner Wieland, essa fu migliorata per essere incisa. Il concerto fu dapprima edito su doppio vinile e distribuito nello stesso anno; la rivista Times, sempre nel 1975, premiò The Köln Concert con il Record of the Year Award. Nel 1978 esso aveva già venduto quasi 1.500.000 copie, cifra che raramente si sfiora nel jazz. Nel 1990 l’ECM immise sul mercato la rimasterizzazione di The Köln Concert su un unico cd, scelta rivelatasi azzeccatissima, tanto da portare a quasi 5.000.000 il numero delle copie vendute!.
Nel 1974, una rivista americana si esprimeva in questi termini: “[Jarrett] è un maestro d’improvvisazione e possiede una tecnica che pianisti del calibro di Horowitz o Rubinstein potrebbero ammirare; la sua tecnica è la più notevole da Art Tatum in poi”. Jarrett non molto più in là negli anni approfondirà questo suo retaggio “europeo” essenzialmente armonico-melodico (dapprima con sodalizi artistici e poi con le incisioni di Bach, Händel, Mozart e Shostakovich), rendendo evidente anche ai suoi detrattori quale sia stato il vero impatto sul panismo jazz di questo americano della Pennsylvania. The Köln Concert è la chiave del suo pianismo improvvisativo e di come in esso l’esperienza “classica” sia messa al servizio del gospel, del rag e del jazz tutto.

La musica che si propone di eseguire Jarrett è dunque tutta espressa nell’attimo stesso in cui viene eseguita: forme, strutture, ritmi, melodie, colori, timbri e moods espressivi, tutto viene inventato al momento, nell’incontro spazio-temporale espresso dall’esibizione concertistica, basandosi semplicemente sull’ispirazione, sul proprio retroterra culturale, sulla propria consapevolezza di musicista e nella massima fiducia delle proprie risorse tecnico-espressive, tramutando l’esecuzione musicale in una vera e propria esperienza vitale, totalmente coinvolgente per se stesso e per chi ascolta. Si tratta, più che altro, di un’innovazione nell’approccio alla musica, di carattere pressoché mistico e che non può essere compresa senza un altrettanto orecchio mistico. Argomentazione questa che ha sempre stentato ad essere accettata dalla critica più ortodossa e tradizionale, diffidente a considerare certe componenti extra-musicali e che tende invece ad attribuire alla gestualità apparentemente scomposta ed eccessiva del pianista un atteggiamento puerilmente esibizionistico ed una manifestazione dell’ego. Si tratta invece del suo esatto contrario, poiché Jarrett mette invece al centro la (sua) musica e non se stesso, mentre il giudizio critico sulla musica è spesso distorto e “distratto” visivamente dalle movenze del suo esecutore.
Country SOLO
Sta di fatto che le profonde implicazioni filosofiche e spirituali che Jarrett sembra suggerire col suo innovativo approccio non sembrano essere ancora state seriamente prese in considerazione, soprattutto da chi poco frequenta certe discipline mistiche, cui Jarrett fa direttamente o indirettamente riferimento e che peraltro sono state più volte citate nelle biografie e su svariate note discografiche che accompagnano i suoi CD.
Jarrett costringe ad un necessario mutamento di approccio nell’ascolto, scevro dal canone usuale di valutazione (tipicamente utilizzato da chi proviene, in particolare dalla musica accademica), che fa dell’equilibrio formale, del rigore strutturale e della logica nello sviluppo melodico-armonico elementi irrinunciabili di valutazione estetica, enfatizzando, senza ovviamente dimenticare i precedenti, la creazione istantanea e il valore della spontaneità nell’esperienza del suonare, ossia valori forse non propriamente intellettuali, ma certamente più idonei a valutare la musica improvvisata. Non a caso Jarrett afferma nel suo “Desiderio feroce”: “Io non mi sento esattamente un musicista. Quando mi ascolto suonare, ci sono momenti in cui realizzo che non si tratta solo di musica”. Per Jarrett non esiste infatti un confine tra musica e vita: per lui il musicista è qualcuno che è trasformato da quello che sente e da quello che suona.
D’altro canto, curiosamente egli non potrebbe essere nemmeno giudicato con i criteri propri della musica afro-americana, nonostante sia e sia sempre stato un musicista di chiara estrazione jazzistica. Da questi concerti, infatti, Jarrett comincia a far intravedere sempre più chiaramente che il jazz è solo una (forse la principale, ma non certamente l’unica) delle fonti d’ispirazione cui attingere, in un coacervo fatto di molteplici elementi: dalla canzone popolare alla new age, dagli inni sacri e profani sino alla musica classica europea e americana (a lui ben note sin dall’infanzia) e molto altro ancora, portandolo a rientrare, come sostiene acutamente Gianni Morelembaum Gualberto, più nell’ambito della cosiddetta “Americana” che in quello del Jazz.
Pur tenendo presente tutti questi innovativi elementi nell’ascolto del cofanetto, si deve tuttavia ammettere che i due concerti, specie il primo, quello di Losanna del Marzo 1973, non possono ancora dirsi opere mature o dei capolavori, che comunque non tarderanno ad arrivare di lì a pochi anni. Entrambi i concerti contengono validi spunti musicali, con note di eccellenza per il concerto di Brema, che sembra essere complessivamente il più organico, ispirato e riuscito dei due. Eccellente anche il breve bis al concerto (Encore), un brano di difficilissima esecuzione tecnica, contenente una sua superlativa improvvisazione, che Jarrett riproporrà brillantemente in diverse altre circostanze concertistiche.

A conferma di quanto affermato, il 1976 si rivelerà un anno decisivo e di svolta per le esibizioni in piano solo di Jarrett, con la produzione di alcune delle sue opere più mature, come Staircase, e soprattutto con l’arditissima pubblicazione contemporanea di cinque consecutivi concerti dell’autunnale tournée giapponese, che personalmente considero la sua opera più rappresentativa di piano solo improvvisato: Sun bear concerts.
Staircase è un’opera di transizione nell’estetica jarrettiana e, soprattutto, risulterà a tutt’oggi l’ultimo lavoro di piano solo registrato in studio da Jarrett. Si tratta, di un’opera formalmente compiuta, già molto diversa e in definitiva assai più profonda rispetto al concerto di Colonia. Anche se registrata al Davout Studio di Parigi nel Maggio di quell’anno, sempre d’opera totalmente improvvisata trattasi, ma questa volta pensata e strutturata organicamente in quattro parti distinte: Staircase, appunto, Hourglass, Sundial e Sand (scalinata, clessidra, meridiana, e sabbia intesa come trascorrere del tempo sono le traduzioni delle parole. ndr), ognuna delle quali sembra possedere motivazioni ispiratrici diverse e, in definitiva anche emozioni diverse. Decisamente una bella e calibrata prova del Nostro che, pur affrancandosi notevolmente dalle concezioni jazzistiche più ortodosse, sembra fatta apposta per contraddire le già numerose critiche provenienti dalla critica jazz più rigida ed intransigente dopo la pubblicazione del concerto di Colonia. Più di un critico attento riesce infatti a mettere obiettivamente in rilievo la valenza di questa opera, che rivela appieno, specie in il Hourglass, il talento pianistico e melodico di Jarrett e la molteplicità delle sue fonti ispiratrici.
Sapporo
Ma è con i Sun bear concerts che Jarrett tocca forse la vetta più alta ed innovativa della sua idea di pianoforte solo improvvisato, basata sul concetto, portato alle estreme conseguenze, di libera improvvisazione, così ben sviluppata nell’evoluzione della musica afro-americana e alla quale anche Jarrett fa indubbiamente riferimento. Un’improvvisazione che potremmo definire “totale” e che, se da un lato non parte solo e semplicemente prendendo spunto da un tema base, o da una struttura armonica, come normalmente viene intesa, dall’altro non richiede nemmeno la distruzione e la frammentazione dei suoi elementi costituenti per raggiungere quel grado di libertà così fortemente ricercato da grandi personaggi di riferimento jazzistico nel periodo, come Cecil Taylor, in qualche modo da considerarsi, nell’estetica, un suo stimato alter-ego. La libertà che cerca Jarrett, pur avendo alcuni punti in comune è, infatti, una libertà diversa, priva di iconoclastie, che rifugge di principio qualsiasi genere o momento di cacofonia e che si ripropone di elevare al massimo grado il potenziale espressivo e creativo dell’artista nell’atto del suonare.
Due opere assai diverse tra loro ma entrambe molto significative, come Dark Intervals e Solo Tribute (edizione questa in realtà distribuita ancora in video), registrate alla Suntory Hall di Tokyo rispettivamente l’11 e il 14 Aprile 1987.
In questo senso Dark Intervals costituisce uno dei suoi concerti più significativi, anche se all’apparenza un po’ lugubre e che farà da riferimento per tutte le successive pubblicazioni concertistiche. Un’esibizione in cui Jarrett sembra voler sviluppare in musica il concetto di silenzio, in varie forme e modalità, riferendosi in particolare ad una sua precisa forma: la pausa musicale. Una pausa (con la quale si sottintende il dark interval del titolo) spesso breve, infinitesimale, in cui il pensiero e le mani “meditano” allo scopo di decidere la direzione da dare ai suoni successivi.
Impressiona, anche se forse esteticamente può lasciare perplessi, un brano come Opening in cui, d’altro canto, Jarrett sembra esplicare in musica quel concetto di ricerca “feroce” dell’energia creativa che è in fondo la radice prima di ogni sua buona improvvisazione.
Hymn
Hymn


Con il Paris concert, del 1988, Jarrett compie un ulteriore passo avanti verso l’approfondimento mistico in musica introducendo qualcosa di fortemente “bachiano” nelle sue performance. “Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio. La sua opera è generatrice di divinità. Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, è necessario che Egli esista. Altrimenti tutta l’opera del Kantor sarebbe una straziante illusione. E pensare che tanti teologi hanno perso giornate e notti a cercare le prove dell’esistenza di Dio, dimenticando l’unica”. Questa citazione di Cioran, meglio di ogni altra esprime a parole la perfezione universale, pressoché cosmica, della musica di J.S. Bach, autore che più di ogni altro sembra avvicinarsi con la sua arte a Dio.
Nella lunga introduzione al brano semplicemente intitolato 17 Ottobre 1988, Jarrett è pronto a cogliere e ad assimilare perfettamente, nel suo eloquio, la componente trascendente nella musica del suo illustre predecessore. Non a caso proprio in quel periodo Keith studia e approfondisce la lezione del grande maestro tedesco, pubblicando le sue interpretazioni del Clavicembalo Ben Temperato. L’approfondimento si coglie del resto anche nell’ambito delle contemporanee pubblicazioni in Trio (si veda ad esempio Autumn leaves, in Still Live o l’introduzione di All the things you are, in Tribute o l’esecuzione a due voci di Woodyn You, in The Cure), dove le sue improvvisazioni più “jazzistiche” acquisiscono un evidente carattere “bachiano” e una bellissima tendenza allo sviluppo “fugato” e polifonico del discorso musicale.
Prism



Paris concert non si distingue tuttavia solo per il lungo brano citato, in fondo da considerare una prosecuzione del discorso iniziato con Dark Intervals. Esso riporta, infatti, due bellissimi brani di estrazione più propriamente jazzistica, mai abbandonata o rinnegata da Jarrett in carriera, rispolverando un brano come The Wind, del misconosciuto pianista West Coast anni ’50 Russ Freeman e una sua notevole improvvisazione su blues.
blues
Blues
The wind
The wind

 Un’alternanza di proposte che ripeterà sempre più spesso nei concerti successivi e che dimostra ancora una volta la sua grande cultura jazzistica.
Il Vienna concert, pubblicato nel 1993 ma registrato nel 1991, prosegue sulla strada già tracciata ed è sicuramente un altro riuscito episodio che documenta forse una delle sue migliori performance in piano solo improvvisato d’ispirazione classica. Gli elementi afro-americani qui sono infatti volutamente ridotti all’osso, ma la sua consapevolezza di musicista ormai maturo e personale sembra ormai emergere in modo quasi carismatico, producendo comunque sintesi musicali interessanti e confermando enormi capacità di generare momenti musicali di rara bellezza. “Ormai, quando un pianista si scopre disposto a uscire dalle griglie del jazz o della tradizione colta per entrare in un terreno che sia di tante o di tutte le culture, si dice che suona alla Jarrett. Il modello è lui, non perché oggetto consapevole di imitazione, ma perché il suo modo di suonare ha già esplorato infinite sintesi possibili. Ormai, suonare il pianoforte cosiddetto di confine rende tutti, ineluttabilmente, epigoni di Jarrett”


Considero, infine, il concerto del 13 febbraio 1995 al Teatro alla Scala il suo concerto in piano solo più riuscito dai tempi del Sun Bear Concerts. Si tratta, a mio avviso, di un nuovo apogeo della sua arte, dopo il quale, con l’eccezione del particolare The melody at night with you, un disco bellissimo, registrato in casa nel periodo della lunga malattia, ma crepuscolare e di tutt’altra poetica, Jarrett non ha più inciso in questo tipo di situazione.
Somewhere over the rainbow
Somewhere over the rainbow


I love you Porgy
I love you Porgy
E’ questo un concerto in cui si trova di tutto, dalle influenze orientali, alla musica accademica, dallo standard, all’atonalità jazzistica, in un’esibizione che lascio alla bella e adatta descrizione contenuta nella cronaca dell’epoca di Franco Fayenz: “E’ il momento dunque. Il pianista ha un attimo di esitazione davanti alla tastiera, poi ecco un ricciolo di note che subito ne richiama un altro e prende quota su un tempo medio-lento. Chi se ne intende capisce che il seme è buono. Il flusso è postromantico, di grande poesia. La gestualità di Jarrett è la solita: si alza in piedi, ondeggia davanti allo strumento, si china sino a sfiorare la tastiera con la fronte alla maniera di Bill Evans. Ogni tanto mugola o canticchia, abbandona il pedale, picchia il pavimento col piede destro. Il clima quasi chopiniano cede insensibilmente il luogo a un motivo orientale. Poi i suoni tendono a dare segni d’incertezza e perfino a spegnersi. E’ il momento in cui l’improvvisazione brancola alla ricerca di un nuovo nucleo. Jarrett lo trova, inventa un ritmo fosco e ostinato, accenna a melodie poi negate, attinge a depositi della memoria e frantuma assieme Bill Evans e ragas indiano, Stephen Foster e Chopin, Liszt e Bud Powell. Il pubblico segue rapito, attonito. E quando dopo tre quarti d’ora, Jarrett rientra fra le quinte, scatta in un applauso impressionante e lo richiama per cinque volte. Prendo nota che la Scala ha ottenuto l’intervallo che il nostro, di regola, nega. Adesso per lui è come se cominciasse un secondo concerto. Capisco che il seme è di nuovo fecondo, ma porta da tutt’altra parte, verso la contemporaneità e verso un linguaggio più conciso e sicuro, fitto di riferimenti alle sue esperienze classiche. Un interludio romantico conduce a un epilogo informale stranamente dolce, esposto a mani incrociate, che termina con un “alt” brusco e inatteso, stupendo.
E’ trascorsa un’altra mezz’ora, la sala esplode. Le chiamate non si contano, i bis sono quattro: un blues, il vecchio Danny boy reinventato, un flamenco, il delizioso Over the raimbow. Jarrett trasforma lo standard nell’adagio di una sonata, ed è il trionfo”.
Ma l’ultima parola spetta a lui, a Keith Jarrett che con un’immagine quasi eterea cerca di condurci nel suo mondo musicale e improvvisativo:
“Le note mi arrivano come un vapore sottile, come vapore acqueo. E io cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell'aria.”  (Keith Jarrett)


Keith Jarrett


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